Dopo l’Iraq, Bush prepara un “surge” afghano

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Dopo l’Iraq, Bush prepara un “surge” afghano

19 Dicembre 2007

Fu il 10 gennaio che George W.
Bush annunciò una nuova strategia in Iraq basata su una massiccia iniezione di
nuove truppe per vincere la battaglia per Bagdad; il 24 novembre è stata
ufficialmente celebrata la fine vittoriosa dell’offensiva, con un livello di
violenza che pur non del tutto debellato è stato riportato ai livelli del 2003,
e con gli stessi inglesi che possono ora annunciare il ritiro da Bassora.

Surge è stato il termine che è stato usato per definire la nuova
metodologia: un vocabolo che può equivalere a “grossa ondata” come a
“sovraccarico elettrico” o “aumento improvviso”, anche se qualche maligno ha
ipotizzato che si voleva semplicemente evitare quell’escalation evocatrice di sconfitte vietnamite. Mentre l’Iraq veniva
stabilizzato, però, era l’Afghanistan a scappare sempre più di mano, col
ritorno in forza dei Taleban e l’aumento esponenziale delle coltivazioni di
oppio. Dunque, è ora sull’Afghanistan che l’Amministrazione Bush sta studiando un
analogo cambio di strategia. Lo ha anticipato il New York Times, pur spiegando che tra il surge iracheno e quello afghano si prospettano alcune importanti
differenze. 

La principale è che in Iraq
l’esposizione Usa è più forte che in Afghanistan. Prima di tutto, perché in
Afghanistan furono le forze anti-Taleban dell’Alleanza del Nord a fare gran
parte del lavoro sul campo, sia pure col determinante appoggio di aviazione e
forze speciali Usa, mentre per la caduta di Saddam gli Usa dovettero mettere in
campo truppe di terra in quantità. E poi c’è che l’Onu diede un mandato per la
guerra al regime Mullah Omar ma non per quella al regime baathista di Bagdad.
Dunque, ci furono nazioni che come la Germania si impegnarono in Afghanistan e
non in Iraq; e altre che come Spagna e Italia si sono ritirate dall’Iraq al
primo cambio di maggioranza di governo, pur restando in Afghanistan. Ne
consegue che in Iraq c’era un problema di truppe sul campo,  risolto semplicemente con l’invio di 30.000
soldati in più, oltre che con altri accorgimenti. In Afghanistan, invece, in
teoria le truppe necessarie ci sono già: 40.000 soldati Nato, tra cui 14.000
americani, più altri 12.000 americani che svolgono attività anti-terrorismo in
modo autonomo dalla Nato. Ma, osservano gli americani, non si impegnano a fondo
contro i Taleban, per effetto di quella retorica del peace-keeping che mantiene
in particolare spagnoli, italiani e tedeschi ancorati a un atteggiamento
difensivo.

La prima mossa, dunque, dovrebbe
essere la nomina di un “super inviato”, in grado di assicurare un miglior
coordinamento delle forze in campo. “Stiamo cercando il modo di ottenere una
maggior coerenza strategica”, è l’espressione esatta che è stata usata. La
seconda quella un maggior impegno in termini di soft power per aumentare la legittimazione del governo di Karzai:
sia in termine di sforzo diplomatico che di aiuti economici. Ma la terza è
appunto quella di richiedere tramite la Nato un atteggiamento più aggressivo da
parte dei contingenti alleati. E Regno Unito, Canada e Australia si sono già
impegnati in tal senso. Il problema, si dice anche in sede di Congresso, sono
tedeschi, spagnoli e italiani: completamente assenti dal Sud, “eccetto 250
tedeschi”. D’altra parte, anche Karzai esita a mettere le truppe afghane sotto
il controllo di un “super inviato” straniero, per ragioni di immagine. E pure
per ragioni di immagine sta opponendosi alla reiterata richiesta Usa di
irrorare le coltivazioni di oppio con pesticidi.