A 50 anni dalla Guerra dei Sei Giorni, Israele ci indica la strada per sconfiggere il terrorismo islamico
05 Giugno 2017
Mentre l’Europa piange l’ennesima strage provocata da terroristi islamisti – l’attacco del London Bridge di sabato 3 giugno – e come negli altri casi nonostante le proclamazioni di facciata si mostra quasi del tutto impotente e inadeguata a combattere efficacemente il nemico – ricorre il cinquantesimo anniversario dello scoppio della Guerra dei sei giorni, iniziata il 5 giugno 1967. Una coincidenza che può essere utile a richiamare gli occidentali alla vicenda dello stato liberaldemocratico di matrice occidentale che per primo ha dovuto fare i conti nella maniera più radicale con l’ostilità del mondo islamico, e che da questo lungo, drammatico confronto è uscito più forte e più vitale.
La Guerra dei sei giorni non fu – come è stato tramandato da una vulgata faziosa che ha promosso la vittimizzazione degli arabi palestinesi – un conflitto di espansione “imperialistica” dello stato ebraico. Essa fu, al contrario, una guerra in cui Israele difese, con la forza della disperazione, la propria sopravvivenza dall’attacco concentrico dei paesi arabi confinanti, governati da regimi autoritari, dittatoriali e nazionalisti, e decisi a distruggerlo, come avevano già tentato di fare nel 1948 alla sua nascita e nel 1956.
La schiacciante vittoria conseguita dagli israeliani con l’attacco a sorpresa che anticipò i piani nemici fece sì che l’esperienza unica di quel piccolo stato voluto dalla ferma volontà di libertà e indipendenza degli ebrei sparsi nel mondo potesse continuare in condizioni di elementare sicurezza, pur in un ambiente assolutamente ostile per ragioni di pregresso, cieco odio etnico-religioso. I famigerati “territori occupati”, su cui la propaganda araba ha in seguito costruito la mitologia della “nazione” palestinese (mai esistita nella storia) e dell’espansionismo israeliano, sono stati in realtà i presìdi minimi che hanno assicurato allo Stato ebraico una efficace difesa alle aggressioni continue provenienti dai paesi confinanti.
Da quel giugno di cinquant’anni fa Israele ha fatto passi da gigante. E’ diventato uno tra i paesi più economicamente e culturalmente progrediti dell’Occidente e del mondo: una “storia di successo” della democrazia liberale e della “società aperta” che sarebbe stata incredibile alla sua nascita, e che è tanto più rilevante in quanto si è sviluppata nelle condizioni più difficili ed estreme pensabili, che la vittoria del 1967 riuscì ad attenuare, ma che certo non sono molto migliorate nei decenni seguenti.
Lo Stato ebraico ha dovuto affrontare l’aggressione del Kippur nel 1973, il terrorismo nazionalista palestinese tra gli anni Sessanta e Ottanta, la guerra del Libano, le ondate di rivolta dell'”intifada” nei Territori, l’attacco dei missili di Saddam Hussein nel 1991, ma soprattutto il graduale trasformarsi del nazionalismo arabo nell’integralismo islamico, dalla nascita di Hezbollah e di Hamas fino alla vera propria guerra anti-occidentale di Al Qaeda e dell’Isis nel XXI secolo. Il tutto senza mai cedere di un millimetro nella difesa della propria sicurezza, e senza cambiare la natura dei propri ordinamenti liberi.
Per tutti questi motivi la vicenda di Israele dovrebbe da tempo essere oggetto di seria riflessione ed essere presa a modello da parte di un Occidente che fin dalla fine della seconda guerra mondiale patisce le conseguenze drammatiche dell’instabilità del Medio Oriente, e che da quasi 20 anni è all’ondata crescente del terrorismo jihadista, combinata in Europa con la sempre più difficile gestione dell’ondata di immigrazione dai paesi arabo-islamici. Se non covasse ancora dentro di sé un’antica ostilità nei confronti degli ebrei (con l’eccezione degli Stati Uniti e, in parte, della Gran Bretagna), che lo ha spinto a condannare spesso pregiudizialmente Israele e a prendere sconsideratamente le parti dei suoi aggressori, l’Occidente di radice europea guarderebbe ad Israele come ad uno tra i maggiori esempi dell’affermazione della propria civiltà, e come all’autentico avamposto dei princìpi di essa nel mondo.
Israele riesce, infatti, a contrastare con successo l’odio arabo-islamista perché è un paese democratico, liberale, multietnico, multireligioso, ma al tempo stesso continua ad affermare con orgoglio e fermezza la propria identità fondante, e non ha paura di affermare la priorità della propria autoconservazione, né di difendersi con il massimo rigore, senza sensi di colpa, da chiunque la metta in pericolo.
Su 8 milioni e mezzo di abitanti del paese, il 25% è arabo, e di questi il 20% è musulmano e il 5% cristiano. A Gerusalemme, capitale dello stato, luoghi sacri e fedeli delle tre grandi religioni monoteiste vivono a stretto contatto, e per la stragrande maggioranza del tempo pacificamente. Ma nessuno si sogna di mettere in discussione, pur nella laicità degli ordinamenti e nella pienezza dei diritti di cittadinanza per tutti, la natura ebraica di Israele: esattamente il contrario di quanto hanno fatto le società europee, che hanno sempre più scolorito, quando non negato, il ruolo essenziale delle radici e dell’identità ebraico-cristiana per l’esistenza dei loro ordinamenti liberali e democratici, e sono riusciti a cancellare quelle radici anche dalla Carta dell’Unione europea, annegando in un relativismo culturale che le rende incapaci di oppore valide barriere all’integralismo musulmano.
Per quanto riguarda la vita quotidiana, in Israele le libertà e i diritti civili di tutti gli abitanti convivono quotidianamente con i più rigorosi controlli, e con una necessaria, anche se spesso dolorosa, limitazione della libertà di movimento e azione degli individui. Le minacce provenienti dai paesi confinanti sono state drasticamente ridotte attraverso la costruzione delle barriere di protezione lungo i confini, dimostrando la falsità del luogo comune, oggi ripetuto all’infinito dalla cultura politically correct europea, secondo il quale “i muri non servono”: grazie ad essi, invece, la popolazione del paese ha la possibilità di vivere la propria vita quotidiana libera dalla paura continua di essere aggredita e uccisa. L’immigrazione viene rigorosamente selezionata, favorendo l’ingresso di popolazione ebraica, impedendo l’afflusso da altri paesi del Medio Oriente, e non riconoscendo lo status di rifugiati nemmeno ai fuggiaschi dalla Siria o dall’Iraq.
D’altra parte, l’elemento fondamentale nel successo israeliano in un habitat tanto ostile è di natura non pratica o organizzativa, ma, appunto, culturale e psicologica: i nemici sono chiamati chiaramente con il loro nome, così come altrettanto chiaramente viene rivendicata la necessità di usare la forza per sconfiggerli. Il contrario del “buonismo” in voga oggi in Europa, in base al quale dopo ogni attacco jihadista ipocritamente viene negata la radice religiosa dell’odio dei terroristi, si afferma che tutte le religioni sono uguali, che con il terrorismo l’islam non c’entra nulla, che “non dobbiamo cambiare il nostro stile di vita”. Il caso di Israele dimostra invece che di fronte alla minaccia terroristica le società liberaldemoratiche il proprio stile di vita devono cambiarlo profondamente. Che devono innanzitutto prendere coscienza della necessità di sacrifici, rinunce, fedeltà, solidarietà per difendere la sicurezza comune.
Infine – ma è un aspetto di non minore importanza – in Israele è radicata la consapevolezza che una società libera non può difendersi contro nemici spietati se non è vitale, giovane e feconda dal punto di vista demografico. Il tasso di fertilità è in quel paese molto più alto della media occidentale, e soprattutto della tendenza alla denatalità da tempo in atto in Europa, che rende la popolazione autoctona sempre più anziana e poco numerosa, di fronte all’incombente e già invasiva valanga degli immigrati islamici, già oggi preponderenti in grandi, incontrollabili “enclaves” sparse in tutto il territorio europeo: spazi che rappresentano un focolaio costante di violenza e di odio integralista antioccidentale, antisemita, anticristiano.
Circa un decennio fa il grande storico del Medio Oriente Bernard Lewis, ad un intervistatore che gli domandava come fare per sconfiggere l’integralismo islamico, rispose “Sposatevi giovani e fate molti figli”. Un amico recentemente tornato da un soggiorno in Israele mi ha detto che a Tel Aviv lo aveva colpito soprattutto una singolare corrispondenza: “bandiere israeliane ovunque, bambini ovunque”. E che ogni coppia che lì ha conosciuto ha almeno tre o quattro figli.
Ecco la strada che Israele chiaramente ci indica per sconfiggere il terrorismo integralista che ormai minaccia la sopravvivenza stessa della nostra civiltà e delle nostre libertà: attaccamento strenuo all’identità religiosa e nazionale; spirito di sacrificio e senso della comunità prevalente sull’individualismo; pluralismo politico e religioso ma difesa intransigente della sicurezza; cultura della vita e prolificità. Forse i cinquant’anni dalla guerra dei sei giorni possono essere l’occasione per una riflessione seria su questo modello, e per cominciare finalmente a seguirne le orme.