A Cacciari e Agamben dico: Draghi non è Conte (di C. Togna)
29 Luglio 2021
Le polemiche nei confronti di Massimo Cacciari e di Giorgio Agamben seguite alle loro posizioni sul cosiddetto “obbligo vaccinale” hanno prodotto giudizi sui due studiosi ingiusti ed irrispettosi. La bibliografia delle opere di Cacciari e di Agamben è talmente sterminata, le loro analisi in campo filosofico, giuridico ed economico, anche in termini di riflessioni originali sull’origine degli autoritarismi e dei fascismi, talmente profonde che non hanno bisogno di difesa alcuna. Le loro opere sono dei pilastri del pensiero e sono lì: chi è in grado può certo dialetticamente confutare le idee in esse contenute (come ogni tesi del pensiero) ma con altre idee migliori e performanti sotto il profilo strutturale e funzionale, non certo con le invettive.
Ma che cos’è che ha fatto tanto infuriare nelle tesi di Cacciari e di Agamben? Con un po’ di freddezza provo, con tutta la modestia del caso trattandosi di due giganti del pensiero occidentale, a cercare una chiave di lettura.
Non può non constatarsi che nei governi Conte (sia il Giuseppi 1 che il Giuseppi 2) l’azione governativa avesse quale principale caratteristica il “perpetuarsi del vecchio” e il dilazionare “l’avvento del nuovo” – che pertanto non può nascere – e quindi il concretizzarsi di una sorta di “interregno”. Nel pensiero di Gramsci (e quindi prima ed indipendentemente da Cacciari ed Agamben) la crisi che configura l’interregno è una “crisi di autorità” in cui il ceto governativo dominante, sebbene abbia perso il consenso, mantiene il potere non già nonostante la crisi bensì in virtù di essa: istituzionalizzando, come ben nota Giorgio Agamben, lo stato di eccezione. Quindi la crisi è funzionale alla sopravvivenza del vecchio ordine dello “status quo” espresso da formule arcinote: “c’è la crisi, non c’è alternativa” o “ce lo impone la crisi”.
Va dato atto, con onestà, al Senatore Renzi di aver denunciato la “volontà di impotenza” del governo Conte di fronte allo stato di “biosicurezza” imposto dall’azione governativa. Fu quello il momento in cui divenne evidente il conflitto di valori tra politica e scienza medica chiamata a gestire un’epidemia (anzi una pandemia) che sarebbe finita per essere il nuovo terreno della politica: quello che i politologi americani chiamano “security state”.
La tesi di Giorgio Agamben, sul punto, è che la biosicurezza supera per efficacia e pervasività tutte le forme di governo che abbiamo conosciuto. La “minaccia alla salute” è stata la leva per delle limitazioni delle libertà personali e costituzionali, durante il governo Giuseppi 1 e Giuseppi 2, mai accettate in passato. Al paradosso che la cessazione di ogni relazione sociale (chi può dimenticare lo “state tutti a casa”?) e di ogni attività politica (chi può dimenticare il deserto delle aule parlamentari?) è stata presentata come la forma “esemplare” di ogni partecipazione civica.
Fu allora che con un’operazione retorica di matrice forense (con il marchio di Conte avvocato del popolo) si è trasformato il “diritto alla salute” nella “obbligazione giuridica” alla salute da adempiere a qualsiasi prezzo. E’ la dicotomia già posta da Weber tra scienza come professione e politica come professione.
Nella lettura che delle tesi di Weber dà Massimo Cacciari (Il lavoro dello spirito) risulta dovere sociale del medico scienziato comparare le diverse visioni della malattia ed indicare, in termini del tutto probabilistici, le conseguenze che possono derivarne ma mai in nessun modo, in quanto medico scienziato, stabilirne il valore sulla base di finalità universali. I valori restano al di fuori dell’ambito scientifico sia nel campo delle scienze fisico-matematiche che nel campo medico. Valori che richiedono una risposta politica, una visione sul “come si debba agire” rappresentano una responsabilità (anche tragica) di decisioni cui la politica non può sottrarsi.
II campo che tale domanda spalanca va ben oltre il problema della funzione e del carattere in generale della profezia e del carisma demagogico per investire quello della “politica come professione”. Secondo la lettura di Cacciari è su questo nodo che la prospettiva weberiana si concentra: l’opposizione tra due ordini, professionale-scientifico da un lato e valoriale (politico) dall’altro, che può apparire generica, si configura e determina come conflitto tra lavoro intellettuale e scientifico e lavoro intellettuale politico.
Ma quale politico?
Un politico capace di porsi non quale mero esecutore ma in “analogia” con il lavoro intellettuale scientifico: funzione “analoga” resa possibile dalla padronanza di un apparato tecnico burocratico organizzato e specializzato nelle competenze quale politico professionale.
E qui credo sia il punto di non condivisione delle tesi di Cacciari ed Agamben. E cioè quello di “traslare” le critiche sull’utilizzo dello “stato di necessità” a “metodo di governo” proprio dei governi Conte, aventi l’incompetenza (elevata a sistema) quale matrice culturale di politici improvvisati guidati da un premier all’epoca sconosciuto alla politica, al governo Draghi che nella fattualità sta restituendo all’azione politica dignità ed autonomia rispetto ai dettati della scienza medica (quando assertivi e privi di scientifico dovuto scetticismo).
E’ il governo Draghi, in antitesi ai governi Conte, che sta impedendo quello che mai la politica avrebbe dovuto permettere: e cioè che la scienza medica prendesse direttamente e attivamente parte al “polemos” dei valori. L’esecutivo Draghi si è riappropriato dell’elemento di tragica responsabilità del “decidere” con il tentativo di far funzionare al meglio le strutture amministrativo-burocratiche umiliate dalle incertezze del precedente governo di debole coalizione e caratterizzato da uno strutturale occasionalismo legislativo. Ed è su questo punto che non sono d’accordo con Cacciari ed Agamben.
La libertà è stata tradita nei governi Conte. L’esecutivo Draghi, per come ne intendo l’azione, sta invece restituendo con le sue decisioni politiche quella libertà che ci era stata precedentemente negata.