A Caprotti non far sapere quant’è buono il servizio pubblico con le pere (delle Coop)

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A Caprotti non far sapere quant’è buono il servizio pubblico con le pere (delle Coop)

03 Ottobre 2007

Una premessa è d’obbligo: in materia di servizi pubblici locali una riforma è necessaria. Ma essa, per dirsi tale, deve riuscire a tutelare tre interessi di fondo: quello dei cittadini, quello delle imprese e del mercato, quello degli enti locali. Ovvero, deve mettere gli enti locali nelle condizioni di dover erogare i servizi migliori e più vantaggiosi a coloro che ne fruiscono. Per raggiungere questo risultato, riteniamo che la soluzione preferibile resti la concorrenza, che coniughi un ruolo centrale per l’impresa privata e il rispetto del principio di sussidiarietà economica.

Il lungo iter e le vicissitudini del ddl governativo sui servizi pubblici locali ci ha purtroppo reso consapevoli che, in realtà, rispetto alla riforma che tutti consideriamo necessaria, oggi si sta parlando d’altro. Al Ministro Lanzillotta va comunque il merito di averci provato; alla sua maggioranza il demerito di aver preferito gli interessi di parte a quelli dei cittadini.

Abbiamo apprezzato il tentativo originario di inaugurare un processo di liberalizzazione in uno dei settori a più grande densità economica del Paese che procede in netta controtendenza con quanto avviene nel resto d’Europa (termine con cui la sinistra si sciacqua la bocca soltanto a convenienza), dove il principio regolatore dei servizi di interesse generale si fonda sull’assunto che il miglior soddisfacimento delle esigenze del cittadino sia garantito dai meccanismi della concorrenza.

In un’ottica di modernizzazione è da ascriversi al governo di centrodestra della scorsa legislatura il merito d’aver conciliato le esigenze della liberalizzazione con le istanze provenienti dalle Regioni, dagli Enti locali e dai gestori dei sevizi per superare i conflitti seguiti alla modifica, nel 2001, dell’articolo117 della Costituzione. Non quello, però, di essere andato fino in fondo. Il Ministro Lanzillotta aveva originariamente raccolto la sfida, osando spingersi laddove neppure il centrodestra era giunto. Intento nobile ma che, alla prova dei fatti, è approdato al fallimento, sfigurato dai colpi e dai ricatti di larga parte della stessa maggioranza.

Il ddl di cui si attende la discussione in Parlamento, infatti, solo in apparenza sembra invertire la vecchia impostazione incentrata sulla centralità del ruolo dell’ente pubblico, a tutto vantaggio delle regole del mercato. Nella realtà dei fatti, invece, per svelare l’effimera portata innovativa del disegno è sufficiente esaminare i previsti correttivi alla “liberalizzazione”. Si scopre così che il ddl ripropone inopinatamente il criterio della ripartizione tra società mista, pubblica o individuata con gara, discostandosi così apertamente sia dal prevalente orientamento europeo sia dalla più recente giurisprudenza amministrativa. Quest’ultima in particolare, se considerata, non avrebbe lasciato adito a dubbi nell’escludere la possibilità “di un trattamento diversificato in favore delle società miste rispetto alla partecipazione ad una gara specifica per ottenere l’affidamento di un pubblico servizio”.

Perché questo “contrordine compagni”? Regolamentare i servizi pubblici locali significa incidere su un territorio economico di esclusiva competenza delle amministrazioni locali – comuni in primis -, dove si gestisce al livello primario il consenso politico. Ed è proprio questo combinato disposto tra rilievo economico e interesse politico che ha determinato il pesante conflitto di interessi che ha schiacciato il tentativo riformistico di questa maggioranza.

La stabilità delle amministrazioni locali a seguito della elezione diretta dei sindaci, infatti, ha reso “fisiologico” il loro tentativo d’esercitare il controllo diretto sui servizi pubblici locali in quanto strumento di consenso. E questo modus operandi si è vieppiù rafforzato a causa dei limiti introdotti dal patto di stabilità interno, che ha costretto gli enti locali a individuare nuove modalità di gestione economica del consenso. Così, la privatizzazione delle cosiddette municipalizzate o l’affidamento diretto ad aziende “amiche” si sono trasformati in mezzi attraverso i quali provare a perpetuare il controllo del territorio gestendo “indirettamente” le leve dei denari pubblici. Di qui, l’urgenza di una normativa che consentisse la prevalenza della logica di mercato.

Per svelare l’arcano, però, si impone un’ulteriore considerazione. Questa dinamica, infatti, in larghe aree del Paese trova un limite nella regola dell’alternanza imposta ormai per costume dai cittadini nella maggior parte dei comuni d’Italia. Ma non possiamo far finta di non sapere che per una parte dell’Italia questa regola non vige: in Emilia, in Toscana, in Umbria, nella Marche il muro deve ancora crollare. E se qualche scricchiolio si avverte, questa diventa una ragione in più per rafforzare le strutture portanti del blocco di potere, alla faccia dei propositi originari di una Ministra troppo astrattamente riformista!

Se hanno fatto scalpore alcune pagine del recente libro di Bernardo Caprotti Falce e Carrello sul controllo della distribuzione alimentare delle Cooperative nelle cosiddette regioni rosse, provate ad immaginare quanti siano i servizi pubblici locali affidati alle stesse cooperative. In quelle zone del Paese il principio della libera concorrenza nel mercato è da considerarsi alla stregua di una mera chimera. Tutto è sapientemente distribuito, in una logica di rotazione, tra quanti fanno parte del sistema. Si tratta di un mix costituito da aziende controllate direttamente e indirettamente dalle amministrazioni locali di sinistra, e dal collateralismo sindacale pubblico, l’altro vero co-interessato a bloccare l’apertura al mercato di quei servizi pubblici oggi eseguiti con la logica della produzione in house, oppure affidati ad aziende privatizzate a controllo pubblico.

A impedire al Ministro Lanzillotta di portare avanti il suo proposito riformista è il ricatto di quelle parti della sua stessa maggioranza legate a doppio filo con il sindacato e con gli interessi economici del territorio. Di questo passo, è facile prevederlo, si arriverà al paradosso che la regola – ovvero la gara – si trasformerà in eccezione!

E’ evidente che i servizi pubblici locali sono un fenomeno complesso e diversificato per tipo di attività, per profili di redditività, per dimensione e morfologia del territorio di riferimento, per categorie di interessi da soddisfare. Ma un conto è prevedere, in maniera rigorosa, la possibilità di eccezioni in caso di profili “anti-economici” o per quelle realtà, come i piccoli comuni,  per le quali l’interesse del privato potrebbe non essere conveniente per i costi del servizio da erogare. Altro è ribaltare la logica originaria del disegno di legge.

Oggi tutto ciò appare ancora più grave. Da tempo infatti si assiste a un violento attacco ai costi della politica, che individua nelle istituzioni i luoghi degli sperperi. Non siamo tra quanti intendono negare l’esistenza di sprechi e spese inutili. Ma ci è sembrato che il più delle volte quelle campagne abbiano smarrito i problemi effettivi a favore di effetti speciali. Ne abbiamo un’ulteriore conferma. Vorremmo infatti che un domani qualcuno spiegasse ai cittadini quanto costerà loro il fatto che non gli verranno garantiti servizi in linea – per qualità ed economicità – con quanto avviene negli atri paesi europei, solo per tutelare un anomalo blocco di potere collaterale. Siamo sicuri che su questo calerà un velo di pietoso silenzio.