A destra e a manca: senza peli sulla lingua, la politica dopo le elezioni regionali

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A destra e a manca: senza peli sulla lingua, la politica dopo le elezioni regionali

A destra e a manca: senza peli sulla lingua, la politica dopo le elezioni regionali

27 Settembre 2020

Come sempre, il giorno prima le elezioni locali non sono importanti: non si vota per il governo, non sono in gioco gli equilibri nazionali… Come sempre, il giorno dopo hanno vinto tutti e i riflessi nazionali sono inevitabili. Per sfuggire a questo schema, che s’intrufola a volte persino nelle analisi più oneste e al di là delle intenzioni di chi scrive, provo a segmentare l’interpretazione del voto di domenica scorsa in dieci punti: un decalogo dove, per forza di cose, su ogni aspetto tracciato le affermazioni e i giudizi risulteranno più netti e acuminati, sfuggendo così (almeno lo si spera) al rischio del “ma anche”…

 

  1. La spallata che non c’è stata. Il giorno prima delle votazioni, a urne ancora chiuse, Matteo Salvini, il capo del maggiore partito d’opposizione, ha affermato che qualunque fosse stato il risultato, non lo avrebbe utilizzato in ambito nazionale: una cosa è il governo, un’altra sono le elezioni locali, per quanto importanti. Quella dichiarazione andava fatta prima. Avrebbe evitato l’attesa messianica per una spallata alla legislatura, che in realtà potrebbe esserci solo se prodotta spontaneamente dai fatti. Si sarebbe evitato così che un risultato in fondo positivo – si partiva da quattro regioni a due in mano al centrosinistra, si è finiti con un tre a tre – fosse vissuto come sconfitta. Il risultato delle Marche, invece, avrebbe dovuto veicolare la sensazione che i territori dell’ex blocco delle regioni rosse si stiano man mano trasformando in un fortino assediato. Il giorno dopo si sarebbe potuto commentare “dopo l’Umbria, le Marche”. Si è invece inoculata l’idea che per il centrodestra non sia andata bene.

 

  1. I governatori uscenti. Nei mesi della pandemia e della ripartenza, la vera dinamica della politica italiana non è stata quella “maggioranza versus opposizione” ma quella “governo versus governatori” e il luogo delle decisioni dal Parlamento si è spostato alla Conferenza Stato – Regioni. I governatori uscenti hanno perciò goduto di una centralità e di una esposizione che, inevitabilmente, si è riverberata sulle urne. Gli “uscenti” hanno trionfato e, per amore di verità, bisogna aggiungere: non sarebbe stato facile sconfiggerli, al netto dei tanti errori che sono stati commessi in Campania e soprattutto in Puglia, sui quali si tornerà.

 

  1. Il governo. A differenza dei suoi oppositori, Conte non ha sbagliato l’approccio alle elezioni. Si è defilato, inabissato come il più consumato politico della Prima Repubblica. Ha provato a metter pace tra le forze che lo sostengono e a farle presentare assieme, soprattutto dove il risultato si presentava più incerto (Puglia). Vista la mala parata non ha insistito, ha fatto fare e, dal suo punto di vista, ha fatto bene. Così, la navigazione del suo governo ha superato uno scoglio bello grosso. Se tuttavia è vero che da queste elezioni non sarebbe dipesa la sua sopravvivenza (secondo me sarebbe andato avanti anche con un risultato più deludente), non è vero che ora l’esecutivo potrà procedere in acque tranquille. I rapporti tra i partiti che lo sostengono, e ancor più all’interno dei partiti che lo sostengono, non sono certo stati rasserenati dal risultato. E gli aiuti esterni, che potrebbero giungere da alcuni moderati dell’altra sponda, a me sembra siano stati piuttosto scoraggiati dalle dinamiche che queste elezioni hanno evidenziato.

 

  1. Il Pd e Zingaretti. Il Pd e Zingaretti sono quelli che ne escono meglio. Poco più di un anno fa apparivano in crisi, insidiati dalla scissione di Renzi, ai margini del gioco politico. Poi venne il Papeete. E oggi, dopo le elezioni, sembrano aver ripreso slancio, hanno messo Renzi in un angolo prossimo a chiedere un rientro col cappello in mano, sono saldamente al centro del gioco politico. Si dice che Zingaretti è fortunato. Sarà anche vero. A me sembra, però, che il Pd approfitti del fatto di essere l’unico partito rimasto ad avere una struttura, una dialettica interna, una classe politica non eccelsa ma comunque non improvvisata e, soprattutto, diffusa su tutto il territorio nazionale. Alla fine questi elementi, che potrebbero apparire vintage, hanno un loro significato. Ora Zingaretti si trova di fronte alla prova più difficile: sfruttare il successo conseguito per liberare il governo dall’egemonia politico-culturale dei 5 Stelle, senza con ciò provocarne la fine.

 

  1. Il Mezzogiorno. Si conferma il ventre molle dell’odierno scenario elettorale: il luogo nel quale gli spostamenti di voti, liberi (o quasi) dalla dinamica clientelare, si producono con forza e velocità impressionanti. Alle elezioni politiche trionfarono i 5 Stelle; poi il centrodestra, strappando alla controparte in rapida successione Molise, Abruzzo, Basilicata e Calabria, pareva destinato a fare “filotto”; ora in Campania e Puglia si è consumata la vendetta del centrosinistra. Tutto ciò sarebbe già sufficiente a negare significato nazionale a questi risultati. L’affermazione, però, merita qualche specificazione ulteriore. Il voto del Mezzogiorno conferma la crisi dei 5 Stelle: del trionfo del 2018 restano pochi residui e la situazione non appare recuperabile. I risultati evidenziano poi come in alcune regioni – Campania e forse ancor più Puglia – in ambito regionale si siano create reti di potere clientelare “di sostituzione” che, al momento, non hanno ancora trovato le modalità per trasferirsi in ambito nazionale. Infine, le candidature di Caldoro e Fitto da parte del centrodestra sono apparse delle “coazioni a ripetere” che, quanto meno, hanno evidenziato l’assenza di un’analisi e di un programma per la realtà meridionale. Da qui bisognerebbe ripartire.

 

  1. Movimento 5 Stelle. Se non ci fosse stato il referendum a dargli una mano, almeno dal punto di vista mediatico, sarebbe stata una débacle. Il risultato, comunque, è destinato a rafforzare tensioni e divisioni interne anche se non sembrano esserci troppe alternative per il Movimento, soprattutto ora che gli effetti del taglio dei parlamentari sono divenuti realtà effettuale. Travaglio, come emblema dell’area governativa, è sembrato in ogni caso politicamente più forte e convincente di Di Battista, campione dell’area protestataria. Resta il fatto che l’opera di trasformazione di un movimento d’opposizione permanente e “vaffanculista” in un partito della sinistra post-ideologica con vocazione primaria di governo, non sembra nemmeno essere iniziata. Mentre le elezioni nazionali – quelle della prova della verità – si avvicinano, in ogni caso, ogni giorno che passa.

 

  1. Moderati di sinistra. Gli altri sconfitti di queste elezioni. Emiliano, a chi gli ha chiesto di commentare lo sgarbo di Renzi (e di Calenda), ricevuto attraverso la candidatura di disturbo di Scalfarotto, ha detto che non sarebbe valsa la pena neppure di parlarne. La stessa cosa vale in sede di commento generale del voto: prossimi all’insignificanza. Il fatto è che le aggregazioni moderate di sinistra possono assumere un significato solo se si virerà verso un sistema elettorale di tipo proporzionale. Allora cambierà tutto ed esse potrebbero divenire correnti di un più ampio sistema partitico. Fino ad allora avranno un peso all’interno della coalizione nella determinazione dei collegi: col maggioritario anche realtà numericamente molto limitate in alcuni ambiti possono divenire decisive. Non c’è nulla di male, per carità, ma rispetto ai sogni di gloria degli inizi ne è passata d’acqua sotto i ponti dell’Arno…

 

  1. Sovranisti. Sin dalla selezione dei candidati governatori, Salvini e Meloni sono stati protagonisti di una competizione per assicurare ai rispettivi partiti l’egemonia nel centrodestra e, di riflesso, a loro stessi il ruolo di guida della coalizione. Va dato atto che questa competizione non ha fin qui mai messo in dubbio il bene superiore dell’unità dello schieramento. Se vorranno continuare a preservarlo, dovranno però impedire che la legge proporzionale divenga realtà. Il risultato delle urne, in ogni caso, pone ad entrambi problemi di crescita. Salvini ha fallito il “doppio colpo” Emilia – Toscana. Si ritrova con un partito che si conferma al nord dove però Zaia, volendo, potrebbe “ballare da solo”, e s’impantana al sud. Se non saprà correggere questa dinamica, la sua più importante intuizione – ovvero la “nazionalizzazione” della Lega – potrebbe definitivamente sfiorire. Giorgia Meloni ha conquistato la seconda regione e i risultati del nord sono stati per lei una piacevole sorpresa. E’ venuto invece meno, imprevedibilmente, proprio il patrimonio che appariva più consolidato. Al sud i Fratelli d’Italia non sono andati bene. Il rischio è che, senza correttivi, la crescita del partito potrà non superare di molto il miglior risultato di Alleanza Nazionale. A me sembra che ad entrambi – Salvini e Meloni – servirebbe una politica che li portasse a contattare, anche a livello di classe dirigente, settori estranei alla destra pura e che si riferiscono a quel mondo che impropriamente è definito “moderato”. Per questo, appunto, serve innanzitutto una politica e non basta una strategia di acquisizioni, soprattutto se segmentata a livello territoriale.

 

  1. Forza Italia. Continua la decrescita felice: ad ogni elezione qualcuno in meno e il commento: “meno siamo, meglio compariamo” (traduzione improbabile ma efficace di un proverbio dialettale). Il fatto è che queste elezioni confermano che il centrodestra ha bisogno come il pane di una componente liberale, modernamente conservatrice, non sovranista. Forza Italia, così com’è, non assicura più questo ruolo. E’ troppo legata all’origine del partito carismatico e al carisma del suo fondatore il quale però, nel frattempo, soprattutto dopo aver vinto persino contro il Covid, è divenuto definitivamente una icona pop: appartiene alla storia del Paese assai più che al suo partito. Quel che sta accadendo, insomma, è l’inverso di ciò che la dirigenza di Forza Italia ha fin qui temuto: non sono i parlamentari, gli eletti, gli elettori ad abbandonare Berlusconi ma Berlusconi a lasciare il partito, indipendentemente e oltre la sua volontà. Per evitarlo bisognerebbe mettersi subito in gioco. Si è in incredibile ritardo ma in politica è meglio essere in ritardo che in anticipo sui tempi. Nel primo caso si può recuperare. Lo dico anche per esperienza personale…

 

10 Cambiamo! Questa voce chiude il decalogo per due ragioni: per l’eccezionale affermazione della lista che in Liguria porta il nome del fondatore del partito Giovanni Toti  (22%, prima forza della regione) e poi per gli interessi “privati” di chi scrive. In realtà Cambiamo! si è presentata in circa 15 contesti medio-grandi (tra gli altri, Reggio Calabria, Andria, Matera, Avezzano, Terracina, Voghera…), prendendo percentuali comprese tra il 5 e il 2 per cento. Ha poi eletto una manciata di sindaci in comuni sotto i 15.000 abitanti e un consigliere regionale in Puglia (che si aggiunge a quelli della Lombardia, Lazio, Abruzzo, Basilicata, Sardegna e, ovviamente, agli otto della Liguria). Quando si va un ristorante stellato si pretende di ricevere per quel che si paga; quando si va in trattoria ci si accontenta che il cibo sia genuino e ben cucinato. Il rapporto qualità-prezzo, per quel che concerne Cambiamo!, è stato eccellente. Abbiamo cucinato molto bene con quel poco che avevamo. “Cambiamo!”, in fondo, è un sintomo che trasmette una domanda e indica una potenzialità. C’è spazio e voglia di una forza politica che sappia interpretare il buon senso nazionale non in termini di trasformismo, perché ha radici ben piantate in pochi ma chiari princìpi. E che guardi al futuro, senza continuare a sfruttare un passato che merita d’essere reinterpretato e non consumato fino allo stremo.