A Milvio, ras di Grottaspaccata, a imperitura memoria
20 Novembre 2011
Si è levato presto, dopo aver dormito niente; con i pensieri che disegnano rughe nuove, geometriche e più feroci, come fossero tracciate da squadra e compasso – il sonno non viene: per di più la folla robespierresca, che vorrebbe succhiargli lambrusco con una cannuccia nella giugulare, gli urla e zompa sotto il portone di casa. Neanche il più talentuoso dei narcolettici potrebbe addormirsi con un clima così, con le bande partigiane per strada che cercano festa e sangue.
Milvio Dupiottoni, per ora o per sempre, non è più il ras di Grottaspaccata. Per diciassette anni ha spadroneggiato, quando era a palazzo di città e soprattutto quando non c’era, plasmando bilanci, sogni e sagre del borgo. Il paese già ospita due monumenti a suo nome, sebbene il padreterno non l’abbia ancora convocato: il Cavaliere trionfante, tamarrata di alabastro eretta dai suoi seguaci, e lo "sputatoio Dupiottoni", una vasca di granito con pretese "artistiche" che raccoglie il balsamo biancastro di chi vive sostentato da rancori e frustrazione.
Dupiottoni è lo specchio di Grottaspaccata, si è sempre detto: ha incarnato ciò che la stragrande parte della gente è o vuole diventare. Con un però. Perché rifletterne, esaltarne le aspirazioni medie significa di certo riscattarla dalla morte spirituale della saccenteria, della pretesa di essere antropologicamente meglio dotati rispetto a quanti pensano in modo altro; non può voler dire, invece, stressare questo tratto fino a involgarire qualunque cosa si sfiori, accreditando come "popolare" e ambito ciò che nei fatti è riprovevole. E tanti sono i legni storti dei suoi 17 anni di monarchia: dai palinsesti della sua Grottaspaccata TV, gonfi di tette strizzate e avetranate, a un po’ di delibere piuttosto indifendibili, fino ai personaggi di cui, sempre più col passare del tempo, si è circondato. Sempre più curvi, con la spina dorsale sempre più flessibile, con la lingua ad altezze diverse a seconda del sesso: mezz’uomini pronti a insalivargli le suole; donnine ben disposte ad animare la festa che da quando è nato gli squassa le mutande. Un po’ come ogni uomo di potere, di Grottaspaccata o di Brookline. Ma non tutti i suoi pretoriani avevano la testa a livello pavé, ed è un peccato che non abbia voluto ascoltare – veramente – chi ha provato a indirizzarlo, e infine a salvarlo.
I consiglieri con le braghe di taglia larga, i gazzettieri con i neuroni in circolo e gli occhi fiammeggianti, i filosofi e i professori della prima ora (evidentemente non quelli con tre monti nello stemma di famiglia), gli uomini della strada senza complessi di inferiorità, tutta gente con la schiena non pieghevole, ben lieta di strillargli contro per non farlo affondare nelle pozze della narcotizzazione. Dove l’hanno fatto spirare gli zerbini che ci hanno cacciato dentro lui, un’idea di politica, un progetto per il paese. Il colpo di grazia gliel’hanno inferto due traditori assai opposti: un presidente del Consiglio comunale armato dal vuoto che ha in corpo; un assessore al bilancio convinto che le sue ricette di risanamento fossero "troppo migliori" di ogni altra proposta.
Grazie a loro e ai loro consimili, ai debiti colossali delle amministrazioni precedenti, alle debolezze di Milvio, Grottaspaccata finisce nelle mani di un commissario prefettizio, un contabile con gli occhiali sempre tondi e i contatti sempre giusti. Lo manda la banca di Prussell, che è tanto lontana dai Castelli: è un posto dove i "conti del bene" quadrano sempre a vantaggio di bravi squali e a detrimento dei poveri cristi, poveri in saccoccia o poveri in reazioni, come si è ridotto l’ex imperatore. Si dovevano chiamare le urne, ma da Prussell dicono che è un’ipotesi evocata dagli straccioni, quelli che non capiscono che le regole le fanno gli squali. E allora, onore al commissario! A lui e al benzinaro che in piazzale Coreto ha appeso alla colonna del gasolio un quarto di manzo: era un sindaco dritto e sghembo, che merita solo il giudizio della Storia. Non lo sputo di un sanguinario che odia.