A Pomigliano 5200 tute blu decidono se vivere o morire

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A Pomigliano 5200 tute blu decidono se vivere o morire

22 Giugno 2010

La fiaccolata dei due mila dimostranti, quadri ed operai della Fiat di Pomigliano d’Arco e lavoratori dell’indotto e degli esercizi commerciali della città a cui hanno dato il loro appoggio i sindacati riformisti e il Pdl contro la linea della FIOM contraria al contratto collettivo di lavoro proposto da Sergio Marchionne è simile, dal punto di vista economico, politico e sociale alla marcia dei quarantamila della Fiat che si è svolta a Torino nell’ottobre del 1980.

Lo stabilimento di Pomigliano d’Arco si intitola all’illustre filosofo Gian Battista Vico, che nel suo libro fondamentale “La scienza Nuova” ha teorizzato i corsi e ricorsi storici. Come in questo caso fra le due sfilate, fra gli applausi della popolazione e le accuse di asservimento al padronato degli avversari, che non hanno capito la direzione dello sviluppo storico verso le riforme ispirate al prevalere della cooperazione sulle fasi del conflitto fra lavoratori e imprese, in base al principio del contratto decentrato fondato sulla produttività.

E c’è un corso e un ricorso storico anche fra i due referendum, quello attuale e quello sulla scala mobile del governo Craxi nel 1985 e fra la posizioni del sindacato riformista e del governo da un lato e quella del sindacato di lotta politicizzato, allora la CGIL con il PCI e Il Manifesto, ora la FIOM assieme al Manifesto e una parte della sinistra ex comunista dall’altro.

Ed ora come allora l’iniziativa riformista è partita dai quadri che nella terminologia marxista sono “piccola borghesia” e la maggioranza degli operai li ha seguiti. Invece nella dottrina marxista sarebbe la piccola borghesia che dovrebbe seguire la classe operaia, che è la vittima vera dello sfruttamento da parte del capitale e che, in quanto generatrice del valore intrinseco dei beni, è l’avanguardia della trasformazione sociale.

In entrambi i casi si è visto che quadri ed operai fanno parte della stesa classe sociale, che è finita la tradizionale distinzione delle classi e che la lotta di classe non ha più alcun senso. E le conseguenze del referendum che si tiene in questa fabbrica della Fiat possono essere simili a quelle che riguardarono il referendum del 1985 sulla modifica della scala mobile, attuata dal governo Craxi, con il consenso dei partiti della coalizione di centro sinistra e dei sindacati riformisti e delle organizzazioni sindacali delle imprese e la contrarietà della CGIL e del Pci.

E’ vero che questa volta a fianco della FIOM, aderente alla CGIL, non c’è il suo maggior partito di riferimento di questo sindacato, ossia il PD erede del PCI, e che il vertice stesso della CGIl si è espresso per il si al referendum, mentre il PD, pur con riserve e distinguo, ha ufficialmente sposato una linea analoga. Ma rimane il dato di fondo che da una parte vi è chi è per il si senza se e senza ma, mentre dall’altra vi sono coloro che sono in posizione ambigua o contraria, con una spaccatura al proprio interno. Sicchè una pesante sconfitta nel referendum della sinistra avversa all’accordo proposto dalla Fiat è destinato a ripercuotersi negativamente sulla CGIL e sul PD, che dovranno riflettere sul vero cammino riformista, rispetto a cui  le riforme del mercato del lavoro di Pietro Ichino e di Tito Boeri e le vecchie e nuove “lenzuolate” di liberalizzazioni di Bersani sono modesti o/e criticabili diversivi.  

La sostanziale somiglianza fra le due situazioni, quella dei lavoratori della Fiat di Torino del 1980 e di Pomigliano d’Arco nel 2010, trent’anni dopo, sta nella concezione del salario collegato alla produttività al fine di rendere efficiente l’impresa e di consentirle di accrescere la produzione.

L’attuale richiesta di Marchionne però riguarda un contratto di lavoro ispirato a tali principi in cambio di un investimento di 700 milioni che deve servire a rinnovare gli impianti per produrre la vettura Panda, attualmente fabbricata in Polonia. Ciò mediante un aumento di produttività che comporta di produrre un maggior numero di auto, fermo restando il numero di addetti, ed attuando 80 ore di orari straordinari in aggiunta a quelli ordinari di 40 ore di lavoro settimanale. Questi dovranno svolgersi con tre turni giornalieri per sei giorni la settimana a rotazione , in modo da utilizzare al massimo gli impianti. In alternativa vi è la chiusura dello stabilimento Gian Battista Vico di Pomigliano e la conseguente perdita dei suoi 5 mila posti di lavoro e di altri 10 mila nell’indotto e nelle attività connesse.

Nel caso della vertenza di Mirafiori del 1980 l’oggetto del contendere era costituito dal licenziamento graduale di 14 mila addetti, il 4% circa dei 350 mila del gruppo Fiat di allora. Ciò con la previsione di un aumento di produzione, senza nuovi investimenti per accrescere l’efficienza dell’impresa dopo le massicce assunzioni della seconda metà degli anni 70. Queste  non avevano coinciso con aumenti, ma con diminuzioni di auto prodotte a causa dei costi e elevati, dovuti all’elevato tasso di assenteismo e alla scadente organizzazione produttiva. Lo sciopero durava oramai da 35 giorni e i lavoratori che desideravano lavorare venivano fermati ai cancelli dai picchetti degli scioperanti. Questi avevano avuto l’appoggio di Enrico Berlinguer, segretario generale del PCI, che si era recato davanti a Mirafiori per assicurare la solidarietà del partito agli scioperanti e il sostegno alla lotta operaia. Ciò  anche nell’eventualità estrema di una occupazione della fabbrica da parte dei lavoratori.

Autorevoli Ministri del governo Cossiga avevano esercitato pressioni sull’amministratore delegato della Fiat Cesare Romiti perché limitasse i licenziamenti onde giungere a un accordo con la CGIL. E la crisi e conseguente caduta del governo Cossiga era stata da alcuni attribuita al fatto che esso non era riuscito a indurre la Fiat a moderare le sue richieste. Non ci si rendeva conto che la base operaia e non solo i quadri erano d’accordo sulla linea di Romiti e comunque non volevano sottostare ai diktat della CGIL e ai suoi picchetti perché volevano lavorare.

La pubblica opinione, allora come ora, non è a favore della lotta sindacale contro le richieste di efficienza produttiva. I due referendum sono analoghi nella loro portata economica e politica nazionale perchè in entrambi i casi ciò che è in gioco non è solo il singolo quesito, ma una intera linea politica e di politica economica. E ciò che si chiede ai lavoratori è di fare una scelta di campo. Di qua la scelta del salario variabile indipendente e l’assistenzialismo e l’intervento dello stato a sostegno dell’industria, di là la scelta del salario variabile dipendente dalla produttività e l’economia di mercato con le sue regole di efficienza e di competizione. Di qua l’antagonismo e la priorità della distribuzione sulla produzione ed eventualmente il consociativismo. Di là la il prevalere della produzione e della produttività  come base per la distribuzione.

E’ prevedibile che dal referendum esca una ampia vittoria della linea riformista perchè la grande maggioranza degli addetti della Fiat di Pomigliano vuole lavorare per il benessere della propria famiglia e capisce che Marchionne ha posto ai lavoratori una alternativa ragionevole e che egli non ha altra scelta, se vuol fare vivere e consolidare l’azienda di cui ha le redini e la responsabilità. Ma rimarrà una minoranza di no. E bisognerà capire che cosa questa minoranza vorrà fare e quale linea vorranno adottare la CGIL e il PD. Sino ad ora la loro linea ambigua è servita a generare lo scoraggiamento agli investimenti industriali.

Se la minoranza del no farà ostruzionismo all’accordo fra impresa e sindacato e se il PD e la CGIl non isoleranno questo dissenso ci potranno essere conseguenze micro conflittuali che potranno indurre Marchionne a rinunciare a Pomigliano. E allora sarà un giorno veramente brutto per la Campania e per il Sud. E se il PD non ripudierà la Fiom avrà perso ogni credibilità come partito riformista, mentre la CGIL se non farà altrettanto diventerà sempre più un sindacato minoritario al di fuori dei corsi e ricorsi della storia.