A quale nuovo giorno ci porterà il tramonto della nazione?
15 Agosto 2008
Pochi libri sono così importanti per comprendere il senso e il significato dello Stato nazionale italiano come il Cuore (1886) di Edmondo De Amicis eppure pochi bestseller letterari sono stati altrettanto trascurati dagli storici della cultura e delle istituzioni politiche. Eppure basterebbe la lettura del noto episodio Il ragazzo calabrese per capire quali erano gli ideali che avevano animato protagonisti tanto diversi e lontani del Risorgimento come Camillo Benso di Cavour e Giuseppe Mazzini, Silvio Spaventa e Marco Minghetti, Giuseppe Garibaldi e Vincenzo Gioberti, Carlo Pisacane e Francesco De Sanctis. E’ una pagina da rileggere giacché condensa, con parole semplici e che vanno direttamente al ‘cuore’, un ‘mito vissuto’ che costò lacrime e sangue a intere generazioni di italiani, del Nord, del Centro, del Sud.
“Ieri sera, mentre il maestro ci dava notizie del povero Robetti, che dovrà camminare con le stampelle, entrò il Direttore con un nuovo iscritto, un ragazzo di viso molto bruno, coi capelli neri, con gli occhi grandi e neri, con le sopracciglia folte e raggiunte sulla fronte, tutto vestito di scuro, con una cintura di marocchino nero intorno alla vita. Il Direttore, dopo aver parlato nell’orecchio al maestro, se ne uscì, lasciandogli accanto il ragazzo, che guardava noi con quegli occhioni neri, come spaurito. Allora il maestro gli prese una mano, e disse alla classe: – Voi dovete essere contenti. Oggi entra nella scuola un piccolo italiano nato a Reggio di Calabria, a più di cinquecento miglia di qua. Vogliate bene al vostro fratello venuto di lontano. Egli è nato in una terra gloriosa, che diede all’Italia degli uomini illustri, e le dà dei forti lavoratori e dei bravi soldati; in una delle più belle terre della nostra patria, dove son grandi foreste e grandi montagne, abitate da un popolo pieno d’ingegno, di coraggio. Vogliategli bene, in maniera che non s’accorga di esser lontano dalla città dove è nato; fategli vedere che un ragazzo italiano, in qualunque scuola italiana metta il piede, ci trova dei fratelli. Detto questo s’alzò e segnò sulla carta murale d’Italia il punto dov’è Reggio di Calabria. Poi chiamò forte: – Ernesto Derossi! – quello che ha sempre il primo premio. Derossi s’alzò. – Vieni qua, – disse il maestro. Derossi uscì dal banco e s’andò a mettere accanto al tavolino, in faccia al calabrese. – Come primo della scuola, – gli disse il maestro, – dà l’abbraccio del benvenuto, in nome di tutta la classe, al nuovo compagno; l’abbraccio dei figliuoli del Piemonte al figliuolo della Calabria. – Derossi abbracciò il calabrese, dicendo con la sua voce chiara: – Benvenuto! – e questi baciò lui sulle due guancie, con impeto. Tutti batterono le mani. – Silenzio! – gridò il maestro, – non si batton le mani in iscuola! – Ma si vedeva che era contento. Anche il calabrese era contento. Il maestro gli assegnò il posto e lo accompagnò al banco. Poi disse ancora: – Ricordatevi bene di quello che vi dico. Perché questo fatto potesse accadere, che un ragazzo calabrese fosse come in casa sua a Torino e che un ragazzo di Torino fosse come a casa propria a Reggio di Calabria, il nostro paese lottò per cinquant’anni e trentamila italiani morirono. Voi dovete rispettarvi, amarvi tutti fra voi; ma chi di voi offendesse questo compagno perché non è nato nella nostra provincia, si renderebbe indegno di alzare mai più gli occhi da terra quando passa una bandiera tricolore. – Appena il calabrese fu seduto al posto, i suoi vicini gli regalarono delle penne e una stampa, e un altro ragazzo, dall’ultimo banco, gli mandò un francobollo di Svezia”.
Libertà e dignità! Questi erano i beni che i patrioti risorgimentali volevano elargire agli abitanti dello stivale, dall’Istria a Pantelleria: creare una ‘comunità di cittadini’ che non cancellasse le differenze tra le regioni, che riconoscesse a ciascuna il suo valore, ma fosse in grado di riassorbirle tutte in un comune, ambizioso progetto etico-politico, quello di ricollegare il nostro paese all’Europa civile, per dirla con quel Carlo Cattaneo, il cui federalismo non cancellò mai la credenza in una specifica civiltà italiana, fatta di comuni memorie letterarie, scientifiche, filosofiche, di conquiste civili, di intraprendenza economica, di monumenti giuridici e artistici e, soprattutto, di una lingua la cui bellezza e profondità andavano riaffermate contro le borie dei filosofi e dei linguisti d’oltralpe.
E’ un mondo sul quale sembra calato il sipario della storia: illusione la nazione—ed anzi illusione pericolosa se si pensa ai guasti del nazionalismo già prima della ‘marcia su Roma’; illusione l’identità culturale, fabbricata ad arte dai programmi scolastici ministeriali e dalla ‘nazionalizzazione delle masse’; illusione la ‘concordia discors’ che avrebbe caratterizzato i rapporti tra i diversi ‘padri della patria’. La nazione, si rileva, nasce dallo ‘spirito comunitario’ e questo è imparentato con la‘tribù’, con i suoi pregiudizi, le sue chiusure, le sue intolleranze. Dalla triade rivoluzionaria dell’89, quindi, si dovrebbe espellere (o lasciarla ai preti) la fraternitè, foriera di equivoci e matrice di familismi allargati su vasta scala, e concentrarsi solo sulla libertè (liberalismo) e sull’egalité (democrazia e socialismo): la legittimità politica ormai, nella coscienza dei popoli, è legata alla ‘cittadinanza’, i cui diritti sono enunciati nelle tavole di bronzo della Costituzione, e, pertanto, l’unico patriottismo concepibile rimane quello ‘costituzionale’.
Sennonché nascono dei problemi non di poco conto.
a. se “tutti gli uomini nascono liberi ed eguali”, come teorizza la ‘democrazia dei moderni’ e se i diritti naturali di cui sono titolari debbono tradursi in diritti positivi—civili, politici, sociali—garantiti a tutti, che senso ha più la ‘territorialità’ che esclude determinati individui da quel godimento? Come si può dire all’altro, in astratto titolare dei nostri stessi diritti, “stattene a casa tua” se, a casa sua, liberté ed egalité non hanno alcun riconoscimento, spesso neppure formale? Diremo allo ‘straniero’ che non possiamo accordargli la cittadinanza prima che acquisisca i valori del patriottismo costituzionale? E come fa ad acquisirli se non praticandoli? Non è vero forse che s’impara ad essere liberi facendo l’esperienza della libertà?
b. in base alla logica ‘universalista’, se ne deduce, dovremmo far entrare tutti coloro che bussano alla nostra porta (e, in virtù, della maturata sensibilità multiculturale, metterli in condizione di non sentirsi a disagio, facendogli trovare, ad esempio, nelle aule scolastiche il morticino crocifisso)–di fatto, non tutti ma solo quelli che possono permettersi il costo delle carrette del mare.
Portato alle estreme conseguenze, l’imperativo egualitario comporta, però, dei costi—economici, sociali e culturali–per il paese di accoglienza destinati a crescere enormemente col tempo e ad alterare profondamente gli equilibri faticosamente raggiunti in un territorio. Si andrà avanti egualmente? e se la maggioranza degli abitanti di quel territorio non è disposta a fare nessun sacrificio per i nuovi venuti, si dirà: "tanto peggio per la maggioranza, per la democrazia e per i ludi cartacei manipolati dalle classi sociali condannate dalla storia”?
c. un territorio divenuto un colabrodo a fori larghi che fanno transitare ogni etnia, ogni cultura, ogni religione dove reperirà più le risorse materiali e ideali per rendere effettiva l’eguaglianza tra i consociati vecchi e nuovi? I diritti, e specialmente quelli di ultima generazione, i ‘diritti sociali’, costano: garantire a tutti scuole, ospedali, tetto e lavoro comporta il reperimento da parte dello Stato di capitali ingenti e, quindi, un livello di imposizione fiscale senza precedenti. Se si resta in una democrazia liberale, i cittadini debbono essere ‘d’accordo’ ma, per essere d’accordo–e quindi rendersi disponibili ad allargare il cordone della borsa–debbono condividere gli obiettivi dello stato sociale, un’eventualità tutt’altro che scontata in una società sempre più multiculturale. Per fare un facile esempio, se in una piccola comunità, cattolica all’80% e agnostica per il restante 20%, la costruzione di una chiesa o di un oratorio alleggerisce sicuramente le tasche del contribuente ma il sacrificio è considerato un obolo un po’ più consistente, in una comunità multireligiosa una richiesta di contributo analoga diventa problematica: come si può pretendere, infatti, che gli ebrei sborsino del proprio per edificare una moschea o una pagoda?
In teoria, lo spirito democratico prescinde dal territorio : i diritti appartengono agli individui uti singuli a prescindere dalle contingenti determinazioni storiche, etniche, geografiche etc. In pratica, però, solo gli strumenti istituzionali, i mezzi materiali, le risorse culturali a disposizione di un territorio “danno corpo” ai diritti, rendendoli reali ed efficaci e non attributi astratti di un Uomo, che per citare Joseph de Maistre, non s’è mai visto da nessuna parte. Un corpo debole ovvero un territorio incerto, limitato, privo di governo non garantisce niente a nessuno anche se non è detto che un corpo forte, un territorio strutturato, amministrato e capace di erogare risorse e di redistribuirle sia una sicura garanzia per i diritti individuali (v.
L’accesso non è consentito a tutti ma proprio questa esclusione (pur sempre relativa, del resto) fa sì che l’universale possa calarsi nel mondo, nell’unico modo possibile, imponendo le sue misure a uno spazio particolare prima governato dalla casualità e caratterizzato da profondi squilibri sociali e culturali. La sua ‘astuzia della ragione’ non consiste nel promuovere una eguaglianza assoluta e indiscriminata ma nel rendere eguali un maggior numero di cittadini oggettivamente diseguali attraverso l’illusione di una comunità allargata, che si presenta come comunità di comunità. Il ragazzo calabrese di ‘Cuore’ “ è nato in una terra gloriosa, che diede all’Italia degli uomini illustri, e le dà dei forti lavoratori e dei bravi soldati; in una delle più belle terre della nostra patria, dove son grandi foreste e grandi montagne, abitate da un popolo pieno d’ingegno, di coraggio”. L’Aspromonte deve essere sentito da chi abita alle falde del Monte Bianco come qualcosa che appartiene anche a lui e viceversa: ed è in questa più estesa condivisione comunitaria che l’universalismo—come aveva intuito Giuseppe Mazzini—viene a patti con la natura e con la storia.
Pierre Manent, autore di un saggio fondamentale in ‘Difesa della nazione’, uscito da poco in italiano (Ed. Rubbettino), ne La démocratie sans nation (1996)—ora in Enquete sur la démocratie (Gallimard 2007), si è chiesto: cosa sarebbe “una democrazia senza corpo, una democrazia sprovvista di ciò che la psicologia individuale chiama il sentimento del proprio corpo? In rapporto al principio della democrazia, il quadro d’esercizio è esterno, contingente e dunque arbitrario. E’ per questo che la democrazia oggi, sempre più consapevole e sicura di sé, può tanto tranquillamente congedare il quadro nazionale che per secoli fu il suo elemento naturale. Lo sanziona certo per le follie commesse insieme, ma altresì, per i servizi da esso resi—e non è questa un’ingratitudine più che regale?. La democrazia moderna, che si fonda sulla volontà, vuole essere autosufficiente. Ma non può fare a meno di un corpo. E come potrebbe darsi un nuovo corpo, un corpo che non sia l’erede necessariamente contingente ed arbitrario dell’età predemocratica?”.
Grande studioso di Tocqueville ed eccellente storico del pensiero liberale, Pierre Manent, come la sua geniale collega, Dominique Schnapper, figlia di Raymond Aron, da anni sta approfondendo il nesso tra comunità politica (nazione) e democrazia. Agli astratti universalisti, che vogliono sottomettere il mondo al consenso razionale fondato su un solo principio – i diritti naturali e la libertà garantiti a ogni nato di donna– ricorda che la nazione è stata, finora, il medium che ha tenuto insieme la forza e la giustizia e che, per l’uomo europeo, liquidare “come arbitrario ed obsoleto lo strumento politico che gli consentiva, fissando dei limiti, di esercitare la sovranità, cioè la sua volontà” significa rimanere “senza strumento, senza quadro di formazione e di azione, solitario e politicamente impotente”. Tramontata la nazione (oggi