A Reggio o a Belluno, un’appendicite è sempre la stessa!

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A Reggio o a Belluno, un’appendicite è sempre la stessa!

A Reggio o a Belluno, un’appendicite è sempre la stessa!

27 Gennaio 2024

Nei giorni scorsi il Senato ha approvato il disegno di legge costituzionale sull’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario presentato dal Governo, che costituisce storicamente uno dei cavalli di battaglia della Lega. Il fatto ha come era prevedibile scatenato una serie di reazioni preoccupate, allarmate o addirittura indignate. Il rischio che corriamo – secondo queste denunce – è quello di rompere l’unità nazionale, finendo per mettere in crisi la stessa ragione esistenziale della Repubblica Italiana. In realtà l’adozione di un approccio federalista non è in alcun modo in contraddizione con la sopravvivenza dello stato nazione. Anzi, come dimostra l’esperienza di alcuni fra gli stati più solidi al mondo (ad esempio gli U.S.A.) può rappresentare un punto di forza di una nazione. Viceversa, un’impostazione centralista – che riserva agli organi dello stato centrale tutte le decisioni significative e la gestione di tutte le attività amministrative importanti per la collettività – normalmente si accompagna a livelli insopportabili di inefficienza e quindi determina un importante indebolimento dello stato.

L’approccio federalista risponde ad un canone di razionalità che difficilmente può essere contestato. Secondo tale approccio è opportuno collocare le diverse funzioni di governo al livello territoriale che meglio è in grado di esercitarle. Vi sono funzioni il cui esercizio richiede una conoscenza molto approfondita del contesto sociale ed economico sul quale vanno ad incidere. E’ chiaro che attribuire tali funzioni ad apparati dello stato centrale non è corretto, poiché tali apparati le eserciteranno sulla base di una conoscenza delle varie realtà molto approssimativa e adotteranno soluzioni valide per tutto il territorio nazionale trascurando del tutto il fatto che la varietà dei contesti in cui tali soluzioni andranno ad incidere suggerirebbe l’adozione di soluzioni differenziate per i vari territori. Viceversa vi sono funzioni pubbliche che è opportuno vengano esercitate in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale perché relative al soddisfacimento di bisogni e necessità che si presentano uguali in tutte le aree del Paese e perché non sono direttamente collegate ad una conoscenza puntuale dei diversi territori.

In questo contesto il disegno di legge approvato dal Senato si limita a dettare una puntuale disciplina in base alla quale attraverso apposite intese lo Stato e singolo regioni possono convenire il trasferimento di alcune competenze statali al livello regionale. Il testo disciplina minuziosamente la procedura di approvazione dell’intesa che deve essere valutata dalla Conferenza delle regioni, in tal modo potranno esprimersi tutte le altre regioni, e alla fine deve essere approvata dal Parlamento, che rappresenta tutti i cittadini italiani. Alcuni avanzano obiezioni sull’idea stessa dell’autonomia differenziata ritenendo che sarebbe opportuno che le competenze trasferite dal livello statale a quello regionale siano le stesse per tutte le regioni a statuto ordinario. In realtà nel nostro sistema l’autonomia è già differenziata. Basta volgere lo sguardo alle regioni a statuto speciale ciascuna delle quali gode di un proprio specifico profilo di autonomia negoziato direttamente con lo Stato. Certo le regioni a statuto speciale affondano le proprie radice in peculiari ragioni di carattere storico, linguistico o geografico che ne suggerirono la creazione.

Con il disegno di legge del governo la possibilità di differenziazione, che pure è già prevista dall’articolo 116 della Costituzione per alcune materie, viene sistematizzata e dettagliatamente disciplinata con riferimento a tutte le regioni a statuto ordinario. Si tratta di una soluzione razionale perché l’idea dell’assoluta omogeneità delle competenze delle regioni si scontra con una caratteristica del nostro sistema regionale che appare oggi assolutamente incomprimibile: l’assoluta eterogeneità del nostro sistema regionale. Nessuno può contestare il fatto che l’ampiezza, la capacità amministrativa, la complessità di alcune regioni sia enormemente superiore a quella di altre regioni. Nessuno può dubitare che attribuire l’esercizio di alcune delicate funzioni di governo alla Regione Lombardia potrebbe avere degli effetti molto diversi dall’attribuire le medesime funzioni alla Regione Molise. Pertanto, almeno fino a che non si metterà mano al nostro sistema regionale creando delle macro-regioni omogenee per dimensioni e complessità, introdurre elementi di differenziazione può risultare un utile progresso.

Tutto bene dunque? Tutto bene, anche se nella testa ci frulla un’idea che forse poteva essere il caso di affrontare in questa occasione. Il nostro sistema di riparto delle competenze fra Stato e regioni presenta un errore che ci trasciniamo dal 1970 quando vennero istituite le Regioni, dando finalmente attuazione alle previsioni della Costituzione del 1948. In quella sede si decise che alla competenza delle regioni sarebbe stata trasferita anche la competenza in materi di sanità. E la competenza in materia sanitaria rappresenta ad oggi per le regioni la competenza più pesante sia dal punto di vista del carico amministrativo che da quello della dotazione finanziaria. Ma questa scelta non ci ha mai convinto. Dal nostro punto di vista la sanità rappresenta una delle funzioni pubbliche che va garantita in modo assolutamente omogeneo su tutto il territorio nazionale ed è pertanto opportuno che rimanga saldamente nelle mani dello Stato.

La sanità insieme alla sicurezza nazionale e all’ordine pubblico rappresenta il core business dello stato contemporaneo e non è quindi in alcun modo giustificato un trasferimento alla competenza regionale. Persino l’istruzione pubblica, che pure rappresenta un’altra funzione fondamentale dello stato potrebbe essere valutato se trasferirla alle regioni in modo da consentire di poter considerare anche le culture, le tradizioni e le lingue dei diversi territori. Ma nel caso della sanità non se ne scorge il motivo: un’appendicite è sempre la stessa sia che si verifichi a Reggio Calabria sia che si verifichi a Belluno! Ma perché all’epoca si decise di “federalizzare” la sanità? In realtà il motivo fu assai poco nobile. La riforma regionalista fu approvata in una fase storica in cui si cominciavano a sviluppare che quei meccanismi di tipo consociativo fra le forze di maggioranza e l’opposizione del partito comunista che avrebbero caratterizzato gli anni successivi. Regionalizzare la sanità risultava utile in questa prospettiva perché trasferiva alle regioni una funzione pubblica assistita da una cospicua dotazione finanziaria.

In questo modo il PCI che era di fatto escluso dal governo nazionale poteva gestire una significativa massa di danaro pubblico grazie a fatto che era al governo di alcune importanti regioni italiane. Ma oggi, visto lo stato penoso in cui versa in nostro sistema nazione gestito dalle regioni, e visto che nel frattempo è crollato il Muro di Berlino, è stata superata la conventio ad excludendum ed è stato. seppellito il consociativismo, non sarebbe il caso di ripensare la scelta fatta?