A Verrecchia basta una stufa per demolire il mito di Nietzsche
01 Gennaio 2011
di Luca Negri
Quando gli adepti della mitologia nietzschiana erano ormai distribuiti a Sinistra come a Destra, Anacleto Verrecchia diede alla stampe un saggio controcorrente e demistificatorio. Era il 1978 e La catastrofe di Nietzsche a Torino diventava uno dei pochi libri fondamentali per comprendere in profondità il teorico della “volontà di potenza”. Verrecchia demoliva in quelle pagine il santino anticristiano, l’immagine gonfiata del novello Dioniso che celebra la vita, dello Zarathustra fedele ai valori della terra. Bastava raccontare con dovizia di particolari il soggiorno sabaudo di Nietzsche per togliergli l’aureola maledetta. Ne usciva un personaggio tutt’altro che eroico: ipocondriaco, impacciato con il gentil sesso, per nulla interessato al vivace ambiente culturale della Torino fine ‘800.
Ad esempio, attaccando il suo antico mentore Wagner, si definiva fine conoscitore della musica contemporanea; preferiva però trascorrere le sue ore sotto la Mole impegnato nella degustazione di gelati o godendosi rappresentazioni di operette liriche piuttosto che recarsi al teatro per i capolavori di Rossini e Verdi. Verrecchia confermava ciò che i più accorti già immaginavano: Nietzsche non fu un filosofo ma un grande poeta, affetto da disturbi mentali e poco adatto alla vita pratica. Niente a che vedere con la “bestia bionda” in grado di trasvalutare tutti i valori.
Il racconto di quella “catastrofe” fu un grande dono fatto a tutto il pensiero occidentale. Chi ha imparato qualcosa da quel libro, chi lo ha amato ed odiato sarà ulteriormente arricchito dalla lettura dell’ultima fatica del filosofo, germanista e giornalista nato in provincia di Frosinone nel 1927 e piemontese di adozione: La stufa dell’Anticristo. Si tratta del secondo volume di “vagabondaggi culturali”, il primo era uscito due anni fa, edito dalla piccola ma prestigiosa casa editrice torinese Fògola (in catalogo opere significative di Piero Buscaroli, Vincenzo Cardarelli, Massimo Carrà, Sergio Ricossa, tra gli altri).
Verrecchia, dicevamo, è un fine conoscitore della cultura tedesca; ha vissuto in Germania, è stato testimone diretto di uno dei momenti più bui della storia del Novecento, la costruzione del Muro di Berlino; per anni ha soggiornato a Vienna come addetto culturale. Collaboratore di quotidiani tedeschi e Italiani (Il Resto del Carlino, La Stampa, Il Giornale), ha anche tradotto gli aforismi di Lichtenberg ed alcune opere del suo amatissimo Schopenhauer.
I suoi vagabondaggi culturali, ovvero le sue note di viaggio fra gli anni ’50 al 2000, non sono meno utili delle opere filosofiche per farsi un’idea del personaggio con tutte le sue luci e ombre. Quasi sempre accompagnato dalla consorte, Verrecchia si muove lungo lo Stivale (dal parco alpino del Gran Paradiso all’Abruzzo, dalla Toscana alla Sicilia) ed in giro per il mondo (Turchia, Praga, India, Russia, New York), vergando sempre interessanti riflessioni storico-politiche, artistiche e di costume.
Purtroppo porta a spasso anche il suo personaggio, a tratti fastidioso nel rimarcare continuamente certe personali idiosincrasie. Soprattutto non perde occasione per lamentare l’influenza del cristianesimo e della civiltà cattolica ovunque la trovi. In più di una descrizione di viaggio il lettore si trova costretto a sopportare i borbottii di protesta perché le chiese sono state costruite sugli antichi templi pagani.
Convinto della superiorità del pensiero orientale e buddista, Verrecchia nega ogni dignità filosofica al cattolicesimo e alle religioni monoteiste. “O si pensa o si crede” è una delle sue massime preferite; il dubbio è dunque che faccia finta di ignorare non solo il dibattito teologico contemporaneo sui rapporti fra fede e ragione, ma la stessa tradizione tomista e le opere dei Padri della Chiesa.
Con piglio quasi adolescenziale si incammina sulle orme di Giordano Bruno, ma almeno non cade nel grossolano e diffuso errore di fare del filosofo degli “eroici furori” una bandiera della laicità dello Stato e del pensiero illuminista. La verità è invece che Bruno girò le corti d’Europa col sogno di restaurare la teocrazia faraonica e praticando le arti magiche; niente a che vedere con Flores D’Arcais o Emma Bonino.
Verrecchia infatti non è un materialista, se guarda la religione dall’alto in basso è solo perché la considera – così lo ha educato Schopenhauer – “metafisica popolare”, buona per il popolino ma non per i pochi saggi. Alla fine le parti più godibili del libro sono ancora quelle su Nietzsche ossessionato dalla temperatura atmosferica e impegnato in mille peripezie per l’acquisto di una stufa che lo ripari dal freddo torinese (altro che “iperboreo”!). In fondo, solo Verrecchia ha il dono di demolire definitivamente l’uomo che voleva filosofare col martello, ricordando che, essendosi ritirato dall’insegnamento a soli 34 anni “per motivi di salute”, non era altro che “un baby-pensionato”.