Addio a Richard Rorty, il relativista scettico

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Addio a Richard Rorty, il relativista scettico

14 Luglio 2007

Con la scomparsa del newyorkese Richard Rorty, morto nelle
scorse settimane all’età di settantasei anni, la filosofia contemporanea ha
perso un protagonista di primo piano. Alla base del pensiero rortyano, che ebbe
la sua prima rilevante manifestazione nell’opera La filosofia e lo specchio della natura del 1979, vi è la
convinzione che non è possibile trovare i fondamenti oggettivi della realtà e
della conoscenza che l’uomo può avere di essa. Guardando con particolare
ammirazione alle tesi di Dewey, Wittgenstein e Heidegger, Rorty contesta la
pretesa fondazionale della filosofia e ritiene che essa non sia in grado di
fornire alcun criterio ultimo di giudizio: di qui la preferenza da lui
accordata ai filosofi “edificanti”, che egli contrappone  ai “sistematici”.

I primi, a differenza dei
secondi, preferiscono l’aforisma all’argomentazione, non credono di poter dar
vita a dottrine valide per l’eternità, non posseggono certezze, sono disposti
ad accogliere le novità. A parere di Rorty, la filosofia “edificante” ha il
compito di tenere aperta la “conversazione dell’umanità”, mentre non ha più
senso andare a cercare l’essenza della realtà o la verità totale. E tale
conversazione la si tiene aperta proprio rinunciando alla pretesa di voler
cogliere l’Assoluto. Non è difficile notare in queste posizioni rortyane alcune
caratteristiche tipiche del “pensiero debole”: non casualmente, nel 2005 uscì
un volume intitolato Il futuro della
religione
, contenente un intervento di Rorty e uno di Gianni Vattimo, che
del pensiero debole ha fatto la propria bandiera.

Rorty si è occupato pure di
questioni etico-politiche, pervenendo, anche in questo ambito, a risultati
speculativi chiaramente collegati con le idee “deboli” a cui si è fatto cenno.
Rorty riconosce allo storicismo il merito di aver negato l’esistenza di una
“natura umana” o di uno “strato più profondo dell’io” su cui fondare virtù e
valori pubblici e privati. Gli storicisti ci hanno insegnato – sostiene Rorty –
che tutto è da ricondurre alle circostanze storico-sociali, liberandoci così da
ogni visione metafisica o teologica e mettendoci in grado di sostituire la
libertà alla verità come meta a cui tendere nella vita associata. E’ in questo
contesto speculativo che Rorty matura il suo liberalismo ironico e
pragmatistico, una concezione politica di stampo relativistico che rinuncia a
teorie generali e guarda alla realtà con occhio disincantato o, per usare
un’espressione sicuramente vicina alla mentalità rortyana, con spirito ironico.

Liberale, secondo Rorty, è colui che considera la crudeltà il peggior misfatto
e che spera che la sofferenza degli uomini possa diminuire.  L’avverarsi di questa concezione solidale non
dipende però dalla scoperta e dal riconoscimento, da parte di tutti, di verità
e valori eterni e universali. Per questo, ai fini di un miglioramento del mondo
non servono le (impossibili) certezze della filosofia e della religione, quanto
piuttosto le salutari provocazioni di romanzieri, cineasti e giornalisti. Rorty
ha sempre nutrito simpatia per la democrazia liberale tipica delle società
occidentali contemporanee: egli, tuttavia, pensava che il sistema democratico non
potesse essere fondato sull’esistenza di principi universalmente riconosciuti.
Il suo relativismo, sicuramente imparentato con lo scetticismo, non gli
permetteva di credere nell’esistenza di tali principi e lo faceva propendere
per una sorta di pragmatismo che si accontenta di operare per raggiungere mete
che si presentano diffusamente condivise, quali, per esempio, il rifiuto della
schiavitù e il rispetto degli altri.