Adesso Google vuole cambiare il modo di fare politica (con un kit virtuale)

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Adesso Google vuole cambiare il modo di fare politica (con un kit virtuale)

14 Giugno 2010

Internet, quindi politica? Il punto interrogativo potrebbe rivelarsi superfluo da quando Google ha lanciato la sua cassetta degli attrezzi online con cui chiunque può imbastire una campagna elettorale. Volente o nolente, la politica è già entrata in rete. Adesso rischia di finire inghiottita nelle fauci di Google, un Grande Fratello forse più mite di quello orwelliano, ma non meno invadente.

All’inizio di giugno Google ha presentato il “Google Campaign Toolkit”. In pratica è un pacchetto di applicazioni online per organizzare e gestire un comitato elettorale interamente via internet. Niente di nuovo sotto il cielo del web. In questo kit elettorale compare il solito Youtube, poi Adwords, Google News, Google Maps e Earth, e ancora Google Analytics e Google Moderator: tutto il classico repertorio delle Google Apps viene configurato per un uso specificamente elettorale. L’uso più immediato sono le elezioni di medio termine negli Usa, dove non solo Obama ha consolidato la politica online come uno degli assi portanti della politica in ogni senso. Ma la flessibilità d’impiego, l’accesso immediato, i costi praticamente vicini allo zero e la comprovata efficienza di Google rendono il suo kit elettorale adatto ad ogni latitudine.

E’ sufficiente dotarsi di un collegamento ad internet e di una serie di computer. Non serve un nutrito team di professionisti della comunicazione, della cultura, delle istituzioni. Queste figure professionali, di antica tradizione e di pregevole formazione, dovranno convertirsi rapidamente alle nuove tecnologie della comunicazione online. Oppure possono tranquillamente continuare ad usare Google – ma per cercarsi un altro lavoro. Dai tempi delle ribellioni luddiste, questi sono i tradizionali fenomeni di trasformazione dei modi di produzione, che a loro volta si ripercuotono sul mercato del lavoro. Ma anche la politica va ormai consegnata ad internet? E soprattutto, internet vuol dire soltanto Google?

La realtà è che fare politica è ormai una questione tecnologica. Ma il problema è l’inverso: dato che ogni tecnologia è un insieme prestabilito di opportunità e vincoli, quale tipo di politica è possibile realizzare con Google – e quale no? In questo caso il punto di partenza per rispondere è la parola-totem dell’epoca attuale: comunicazione. La politica online è una tecnologia della comunicazione. Permette di veicolare qualunque tipo di messaggio a qualunque pubblico, senza filtri, in tempo reale. Già prima di Obama, quando nei ruggenti anni Novanta Bill Clinton e Al Gore inauguravano le “autostrade dell’informazione”, era concreto il rischio di una colonizzazione della politica da parte degli strateghi della comunicazione. Dopo tutto ogni messaggio in rete nasce da una sequenza binaria di 0 e 1. Obama ha soltanto elevato a sistema questa tendenza: il nerbo del suo staff era imperniato sui profeti della comunicazione e per giunta della comunicazione online. Il capo del suo staff, David Plouffe, era sostanzailmente un esperto nel perdere le campagne elettorali. Il vero genio era David Axelrod, un veterano della comunicazione con un brillante medagliere di successi, il cui vero colpo da maestro è stato quello di assoldare Chris Hughes, un venticinquenne senza nessuna esperienza se non quella di essere uno dei fondatori di Facebook – e affidargli la guida della campagna online di Obama.

Quindi la rete è comunicazione e da quando la politica è entrata in rete, anche la politica si è tradotta in comunicazione. Ma fare comunicazione è in gran parte una questione di marketing, anche elettorale. Nonostante queste vorticose trasformazioni tecnologiche, il marketing non cambia: il suo fine resta vendere un prodotto. E’ sintomatico che il pezzo forte del toolkit elettorale di Google sia una versione di Youtube per spot elettorali. Insomma è sempre il video. Video, ergo sum. Ora diventa: video, ergo voto. La politica online è l’erede tecnologicamente potenziato della tele-politica alimentata dalla suprema legge del marketing: vendere un politico è uguale a vendere un fustino di detersivo.

Ora ci prova Google, col suo logo colorato e l’ideologia della partecipazione dal basso, senza confini, senza barriere, per tutti. La sede di Google è nel quadro idilliaco di Mountain View, città di 70mila abitanti, dove tuttavia la disoccupazione è superiore al 10%. Come è possibile, se le azioni di Google volano in borsa e l’algoritmo del suo motore di ricerca non conosce rivali? Basta un esempio per rispondere. Il “captcha” è quella banalissima domanda con cui all’utente si richiede di digitare una o più parole al momento della registrazione di un servizio per dimostrare che a compiere la registrazione non è un software malevolo. Però in pochi sanno che queste parole, digitate dagli utenti, servono a spiegare a Google come si scrivono, letteralmente, quei miliardi di parole, che Google gestisce nei suoi database, ma che non è riuscito a “trascrivere” in modo corretto. Quindi ogni utente, senza saperlo, lavora gratis per Google. Se invece Google dovesse assumere e pagare dipendenti per eseguire queste verifiche lessicali, andrebbe in rovina. Lo fa fare al popolo della rete, senza neppure dirlo esplicitamente, e ne trae un enorme profitto – Google, non il popolo.

La politica si fa in rete, ma la rete è dominata da Google. C’è sempre una centrale, che amministra tutti i dati, che sorveglia sempre, senza neppure che noi ce ne accorgiamo. Una volta era il tiranno o il comitato centrale di un partito. Oggi è un server, una minuscola scatola contenente miliardi di dati relativi a miliardi di persone. Con Google ognuno può improvvisarsi candidato. Ma ormai senza Google, cioè la rete, sarà molto difficile fare politica. Quella scatola, quel server, è nelle mani dei tre capi supremi di Google. Loro non devono rispondere delle loro scelte a nessun governo e a nessun popolo. Loro sono i padroni della rete.

La vera notizia non è che oggi tutti possono fare politica con Google. È Google che inizia a fare politica, dettando le regole tecnologiche con cui tutti possono, o non possono, farla. E’ la “Google politics”. Ma c’è ancora uno spazio e un senso per la democrazia? Sulla pagine dei risultati di Google la chiave “democracy” compare circa 60 milioni di volte. La chiave “business” sfiora i 2 miliardi. Più chiaro di così..