Afghanistan, dopo i rinforzi serve una strategia politica vincente
05 Dicembre 2009
Il discorso di Obama a West Point
Ogni strategia di contro insorgenza per vincere: (1) deve mostrare la volontà di farlo, (2) impegnarsi nel soddisfare le richieste di sicurezza della popolazione, (3) avere ben chiaro in mente il centro di gravità del nemico. Ora a molti osservatori, compreso il sottoscritto, il presidente americano, Barack Obama, si è dimostrato più sensibile a mettere in evidenza il fatto che sia stata definita una strategia d’uscita dal conflitto che tutto il resto. Sperando di sbagliarsi, ci si può consolare leggendo questo discorso di Abramo Lincoln. Ma alcune reazioni sulla stampa americana confermano la nostra impressione mostrando preoccupazioni sulla mancanza di strategia politica di Obama in Afghanistan, la scarsità di riferimenti sul Pakistan, e dicendo poco anche sugli aspetti non militari del surge. Comunque noi europei dobbiamo solo stare in silenzio.
L’ultimo numero di TerrorismoMonitor della Jamestown Foundation è per la maggior parte dedicato all’Afghanistan e al Pakistan. Inizia, però, con una notizia che non ha trovato nessun eco sulla stampa italiana: un video tape prodotto da al-Malahim, una sorta di ufficio stampa e propaganda di Al Qaida che agisce nella penisola arabica. Mostra l’esecuzione di un ufficiale dei servizi segreti yemenita impegnati laggiù a combattere gli affiliati di Bin Laden e la dice lunga sulle capacità di quel gruppo di colpire a piacimento, suonando come monito nei confronti del governo yemenita a collaborare maggiormente con gli Stati Uniti nella lotta contro Al Qaida. Lo Yemen è entrato nell’occhio del ciclone a partire soprattutto dalla scorsa estate, quando si sono riaccese le ostilità tra le tribù sciite e il governo centrale sunnita; il conflitto si è subito internazionalizzato, con l’Iran in appoggio ai ribelli e l’Arabia Saudita corsa in aiuto allo Yemen.
Tornando alla crisi dell’AfPak, ecco un’intervista al leader indipendentista del Balochistan, la più ampia provincia del Pakistan con capoluogo Quetta. L’intervistato è a capo di un movimento armato secolarista di ispirazione marxista e mostra bene il caos al di là dell’immaginabile che regna in Pakistan. Ma ultimamente in quella provincia, con il 42% di territorio la più grande del paese, sono apparse anche bande di talebani e di Al Qaida a dimostrazione come la crisi afghana si sia allargata a macchia d’olio in tutta l’area; la preoccupazione del governo è che l’intensificarsi dell’azione americana nel sud dell’Afghanistan, dove è destinata la maggioranza dei 30 mila soldati, spinga gli insorti a trovare rifugio in quella zona, destabilizzandola completamente e saldandosi alla rivolta locale. Il secondo elemento di inquietudine è il fatto che il Balochistan è una via di scorrimento nonché d’azione dei trafficanti d’oppio e della criminalità organizzata ad essi legata, i quali potrebbero anch’essi creare dei problemi se si sentissero minacciati nei loro traffici. Il terzo fattore di destabilizzazione è rappresentato dal numero di rifugiati afghani, risalenti all’epoca della guerra sovietica, in Pakistan che ospita uno dei più alti numeri di profughi al mondo, circa 1.800.000, in maggioranza pashtun e proprio nel Belochistan. Insomma, un’altra polveriera. Sulla situazione profughi in Pakistan si può leggere questo report, con annessa cartina, dell’Agenzia dell’Onu per i rifugiati. In questo senso è vero che la strategia americana va valutata complessivamente e quindi significativi sono anche altre azioni oltre al discorso a West Point, come il voto al Congresso in favore dell’incremento di aiuti civili al Pakistan per ben sette miliardi e mezzo di dollari.
Di grande interesse è inoltre un report sulle azioni intraprese dall’esercito pakistano contro i talebani nel nord del paese, nel sud Waziristan, iniziate il 17 ottobre, che sono la prosecuzione dell’altra campagna dell’aprile-maggio di quest’anno nello Swat. L’operazione ha segnato un successo notevole nell’affrontare gli estremisti islamici. Sembra anche che la filosofia dell’iniziativa pakistana sia caratterizzata da una logica di contro-insorgenza mirata a proteggere la popolazione civile, secondo la celebre definizione di “clear, hold and build” e non solo a cacciare e distruggere il nemico militarmente. Tutto ciò mostrerebbe le nuove capacità dell’esercito di quel paese, storicamente concepito per affrontare il tradizionale nemico indiano, a sostenere una guerra di contro-insorgenza, cambiamento avvenuto grazie all’aiuto americano; gli Stati Uniti infatti hanno appoggiato tutta l’operazione anche con aviazione e intelligence. Non solo, l’articolo sottolinea anche il supporto della popolazione alle truppe pakistane, ma solo nei prossimi mesi si potrà dire se veramente il governo di Karachi sarà in grado di dimostrarsi all’altezza delle promesse di ricostruzione delle strutture civili, a cominciare al punto determinante e critico: il ritorno delle popolazioni sfollate a causa della guerra.
Prima di lasciare il tema caldo del giorno, ecco l’ultimo report dell’Institute for the Study of War sulla campagna dell’aprile di questo anno condotta dai reparti afghani nella zona di Kandahar contro i talebani e i trafficanti d’oppio ad essi alleati.
Hezbollah
Il Libano è tornato alla ribalta in Italia solo per la discussione attorno alla riconferma del generale italiano Graziano a capo della missione UNIFIL. Ma qualcosa di notevole e grave sta succedendo. Hezbollah continua a riarmarsi e, a causa proprio della presenza del contingente italiano, sta aggiornando la sua strategia in vista di un futuro scontro con Israele. All’inizio di novembre a largo delle coste libanesi fu fermato dalle vedette israeliane un cargo che trasportava un enorme carico d’armi destinato a Hezbollah: la linea di resistenza contro eventuali rappresaglie del governo israeliano è spostata dal confine ai villaggi più a nord, sempre più fortificati e trasformati in vere e propri bunker. Allo stesso tempo, il movimento sciita libanese ha anche aggiornato la sua carta fondativa, del 1985, con un’importante novità: la rinuncia all’aspirazione di un Libano islamico a causa dell’alleanza con i partiti cristiani, e la conferma dell’ostilità armata verso Israele.
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