Afghanistan, tutti si chiedono quale sarà la strategia di Obama
21 Novembre 2009
Afghanistan
Un lungo articolo sul Washington Times ripete per l’ennesima volta, ma non sono mai troppe, la lezione di Petraeus che si basa sulla costruzione di rapporti di fiducia tra la popolazione nelle guerre di contro-insorgenza. Queste infatti sono guerre che si svolgono tra la gente con lo scopo di portare la maggioranza silenziosa dalla propria parte; è quanto sta succedendo in Pakistan dove sia nelle istituzioni, spesso troppe volte compromesse con gli estremisti talebani, che nella popolazione sta venendo meno il supporto agli integralisti.
Venendo alla stabilizzazione dell’Afghanistan, sorgono dubbi sulla strategia di Obama per la stabilizzazione del paese. “Non vi è nessun dubbio che le prospettive di successo in Afghanistan sono così scarse a causa del comportamento del precedente presidente. Bush ha fallito per sette lunghi anni facendo mancare le truppe necessarie, risorse ma in modo particolare attenzione alla Guerra. Ma ora la guerra è la guerra del presidente Obama e il popolo americano sta aspettando che egli spieghi i suoi obiettivi e la sua strategia… la realtà politica è che più a lungo Obama aspetta, più indeciso appare e più la sua scelta sembra obbligata da fattori esterni”. A dirlo non sono i reazionari dell’American Enterprise Institute, ma il New York Times. Non solo il rimprovero a Bush non è di essere stato troppo interventista, ma al contrario di essersi dimostrato disattento! (Avrei un dubbio, ma i militari dove erano? Che consigli davano tre anni fa?)
Come se non bastasse, la situazione interna continua a preoccupare gli alleati: l’indice di corruzione è infatti uno dei più alti del mondo gettando benzina sul fuoco delle tensioni domestiche e sulla stabilità del nuovo governo Karzai.
Obama in Asia
La storica visita di Obama in Cina si è rilevata per quello che non doveva essere, una passeggiata turistica sulla muraglia, un nulla di fatto come il primo incontro di Kennedy con Khrushchev. Questo è quello che succede quando un presidente pensa che la leadership sia niente di più che l’incarnazione dell’opinione mondiale e l’inseguimento degli accadimenti vestendoli di belle parole, invece che dare loro un indirizzo.
In occasione della visita di Obama nei paesi dell’Asia dell’est, è interessante leggere questo studio dell’Institute of South Asian Studies (ISAS) di Singapore dove l’autore sostiene che le relazioni tra i paesi asiatici e gli USA dovrebbero essere basati su accordi generali all’interno di una cornice istituzionale, piuttosto che basati esclusivamente su accordi politici ad hoc tra le due leadership.
Federazione russa
Il Centro Studi sulla Storia dell’Europa Orientale (che si può ottenere scrivendo a questo indirizzo [email protected]) ha prodotto un pregevole lavoro, come suo solito, su “Il Daghestan: conflitti, religione e politica”, autore Giovanni Bensi. E’ un saggio meritorio per lo meno per tre motivi: per la sua chiarezza, per l’ampia veduta d’insieme (Russia, questione caucasica e Islam) e perché finalmente è in italiano, ma non ha niente da invidiare ai lavori dei think thank d’oltre oceano. Il Daghestan, in turco “paese dei monti”, è abitato da circa due milioni di abitanti che parlano 11 lingue ed è composto da circa 14 nazionalità nessuna delle quali costituisce la maggioranza, il primo gruppo è formato dagli avari che sono il 30%. “Il Daghestan è, con la Cecenia e l’Inguscezia, una delle repubbliche più inquiete del Nord Caucaso, con ricorrenti e gravi episodi di violenza”. Bensi rileva ben cinque tipologie di conflitti: un conflitto politico tra esponenti locali; un conflitto coloniale contro la presenza dei russi e contro l’appartenenza del paese alla federazione russa, tensione che ha prodotto scontri di tipo ceceno; un conflitto religioso tra Islam moderato, quietista, di orientamento sufico e l’islam integralista, di importazione straniera (Arabia, Pakistan, Afghanistan); un conflitto interetnico, legato al forte senso di appartenenza nazionale dei popoli caucasici; il disordine creato dalla criminalità organizzata con strettii legami con le mafie internazionali, compresa la ‘ndrangheta e la camorra, per il controllo del traffico di droga e il contrabbando.
Specificamente sulla Russia, si può leggere un paper scritto da Walter Laqueur per il MESH’s Middle East Papers series, sulla strategia della Russia verso l’Islam. Strategia che in modo sistematico è irta di contraddizioni, la Russia infatti è sempre oscillante nella gerarchia degli obiettivi e delle minacce, stretta tra il risentimento verso l’America e il suo ruolo mondiale, ancora schiava quindi di nostalgie imperiali zariste e sovietiche, e la necessità di doversi confrontare con la forza crescente dell’Islam che crea tensioni al proprio interno e negli stati limitrofi.
Da considerare, sempre sulla situazione russa, quest’altro documento che presenta quattro case studies, disegna i trend generali del crescente e inquietante fenomeno dell’autoritarismo delle leadership nazionali all’interno della federazione ed esamina le trasformazioni politiche dei governi locali attraverso le analisi delle elite e alla luce del controllo delle industrie energetiche. Il lavoro è il frutto di ben tra i più grandi “pensatoi” europei: Research Center for East European Studies di Brema, il Center for Security Studies di Zurigo e la German Association for East European Studies.