Al “Bar Sport” succede di tutto ma (purtroppo) troppo tardi
30 Ottobre 2011
Per realizzare un film di successo, quando si parte da un romanzo famoso si è già a metà dell’opera. Immaginiamoci se si comincia da un classico dell’umorismo all’italiana quale “Bar Sport”, romanzo d’esordio di Stefano Benni, uscito nel 1976. “Bar sport” ormai è un testo di culto, letto e riletto da più generazioni. Ambientato nella provincia emiliana, il racconto ruota attorno ad un bar. Un piccolo bar senza grandi pretese, ritrovo quotidiano di amici. Nelle quattro mura della mescita vi dimora un pittoresco universo, prettamente maschile, che smette il cappotto per il vestito adatto alle mezze stagioni (quando c’erano le mezze stagioni) e si alleggerisce sino alla camicia con le mezze maniche. La provincia protettiva e sonnolenta avverte vaghi richiami della grande città, Bologna “la grassa”, epicentro della modernità, è lontana. È vicina solo nell’immaginario pallonaro dai colori rossoblu, addirittura santificato nella foto appesa al muro del giocatore Giacomo Bulgarelli, icona venerata come un santo laico.
Il mondo di Benni, privo delle copie dell’Unità e dell’odore della canonica, non è la logica evoluzione della “bassa” di Brescello tanto cara a Giovannino Guareschi. I suoi protagonisti rimandano al clima festaiolo, goliardico e godereccio (molto umano e dai tratti esilaranti) di Borgorosso, landa immaginaria dell’Emilia, sulla quale regnava incontrastato Benito Fornaciari (Alberto Sordi), mitico presidente del Borgorosso Football Club, nel film diretto da Luigi Filippo D’Amico nel 1970. Il vulcanico presidente, scaramantico, elegante, un po’ svitato e sempre sorridente, aveva uno slogan «Chi si astiene dalla lotta…». La conclusione non c’è bisogno di ricordarla.
Sulle prime potrebbe apparire un mondo inverosimile, incredibile, inesistente, quello di “Bar Sport”. A poca distanza, a Bologna nel 1977, il mondo stava per prendere fuoco. Nella città venne appiccato l‘incendio e fu messa a soqquadro dai ragazzi del “movimento”. Anche il sindaco comunista Renato Zangheri fu sorpreso dagli eventi e dalla violenza. Era convinto che da buon padre di famiglia sarebbe bastata la sua voce. Non aveva fatto i conti con l’aria del tempo. Bastava sintonizzarsi sulle onde della creatività avanguardista di “Radio Alice”, per capire come per il “movimento” non vi fosse una così sostanziale differenza tra Zangheron de’ Zangheroni e Kossiga. Degli echi della rivoluzione in “Bar Sport” non c’è neppure una labile traccia. E così è nella versione cinematografica (certo tardiva, ma tutto sommato accettabile) per la regia di Massimo Martelli.
Commedia italiana garbata, a tratti divertente, ricca di eccellenti attori. Difficile credere oggi che siano esistiti personaggi come Onassis, il gestore del Bar Sport (Giuseppe Battiston), meritatosi sul campo il soprannome per la tirchieria. Accanto a lui sciama un nugolo di uomini non cresciuti, giovani vecchi, adulti bambini. Uno (Claudio Bisio) parla di tutto pure se non sa niente; un altro (Corrado Catania) vede sempre nero. C’è anche l’immancabile playboy (Teo Teocoli), impegnato ad alimentare con la fantasia un mito di inesistenti seduzioni. Succede di tutto al Bar Sport, anche se non succede mai niente. Si susseguono caffè e cappuccini, amari e cordiali, la scatola dei Boeri, la riffa di Natale, l’annuale torneo di boccetta contro gli odiati rivali del bar dirimpetto, le partite a carte, l’insegna che non si accende mai, il flipper luminosissimo e lentissimo, la minigonna mozzafiato della cassiera, l’organizzazione della trasferta per seguire il Bologna nel derby a Firenze con i viola, le grazie discinte e la chioma bionda di Gloria Guida al cinema in “La liceale”. L’unico elemento immobile è la Luisona, imponente pasta alla crema in attesa (da troppo tempo) di un avventore che avrà l’imprudenza di ingollarla (e la inerte Luisona si risveglierà, sapendo vendicarsi una volta insediatasi nella pancia del malcapitato).
Purtroppo questa trasposizione cinematografica, come dicevano, arriva davvero con troppo ritardo. “Il presidente del Borgorosso Football Club” era eccellente cinema di consumo (o di cassetta, come si diceva un tempo). “Bar Sport” invece è la rivisitazione di quel mondo, passato nella centrifuga di “Zelig”, contenitore del cabaret televisivo, fucina della nuova comicità surreale. Al film manca la forza e la drammaticità che hanno caratterizzato il miglior prodotto dell’immaginario comico della provincia emiliana, “Radiofrecccia” (1998) di Luciano Ligabue, ambientato anch’esso nel 1975 e in una piccola cittadina (non identificata) reggiana. Detto questo, però, almeno in “Bar sport” ci vengono risparmiate le lagne ideologiche, da “memoriale movimentista settantasettino”, di “Lavorare con lentezza” (2004) di Guido Chiesa. E soprattutto ci vengono risparmiate le scemenze di Massimo Boldi in “Matrimonio a Parigi”, che imperversa sugli schermi nostrani nel ruolo di promotore televisivo del magico materasso “dormi e ciula”. Dati i tempi che corrono non è poco.