Al Cav. non piacciono i grattacieli, quindi si faranno!
02 Giugno 2008
Tra gli effetti positivi della vittoria di Milano per l’Expo 2015, c’è stato anche quello del rilancio alla grande (sia pure in modo molto disordinato) del dibattito sull’architettura.
L’occasione iniziale è stata la torre scelta come simbolo della prossima esposizione internazionale, un progetto di cinque giovani architetti genovesi che prevedeva un edificio alto 200 metri per dare il massimo di visibilità alla futura iniziativa e più in generale al polo fieristico Rho-Pero (già notevole per il tetto a onde di Massimiliano Fuksas). Appena l’idea è stata presentata in pubblico nella scorsa primavera, il fuoco di sbarramento è stato fortissimo.
E’ iniziata una vera campagna contro gli edifici troppo alti che a un certo punto ha investito anche i tre grattacieli già previsti per l’area della Vecchia Fiera e che non sono strettamente legati alla futura Expo (anche se in qualche modo fanno parte di un “asse” di iniziative edificatorie rivolto verso il Sempione, che mette in traiettoria progetti diversi. Qualcuno sostiene – e io in parte sono d’accordo- persino con una qualche logica). L’unica buona notizia per i costruttori delle nuove torri è stata quella che contro i grattacieli della Vecchia Fiera – progetto City Life gestito da un pool di investitori con una presenza centrale della Fonsai di Salvatore Ligresti e disegnato da alcune star dell’architettura mondiale come Daniel Libeskind, Arata Isozaki e Zara Hadid – a un certo punto si è schierato anche Silvio Berlusconi, secondo il quale le torri a Milano non dovrebbero essere stortignaccole.
Appena il leader del centrodestra ha preso questa posizione c’è stata un insorgenza contro di lui di ipercritici intellettuali milanesi, quelli che per lo più appestano del loro pessimismo la città, che hanno un po’ modificato le loro tesi. In fondo Ligresti è un nemico secondario rispetto a Berlusconi. Libeskind, poi, ha lanciato un mezzo appello (sul Corriere, naturalmente) contro le tentazioni dittatoriali dei politici che vogliono intervenire in architettura (un argomento da usare con cautela: non avremmo né le Piramidi né Versailles, se venisse preso alla lettera) e l’antiberlusconismo diffuso gli ha fatto eco (almeno per un po’: perché poi le elezioni hanno buttato tutta la sinistra radical chic sotto la Madonnina, pur così abituata a perdere da queste parti, in uno stato di profonda frustrazione).
Comunque i grattacieli di City Life (compreso quello che a me piace moltissimo, così stortignaccolo, di Libeskind) dovrebbero essere salvati (anche se prosegue una certa guerriglia in consiglio comunale) e non tanto perché è prevalsa una linea estetica a favore dell’ "alto è bello" ma perché Ligresti si è impegnato nella cordata per salvare Alitalia, e questo è bastato ad attenuare le questioni di “gusto” berlusconiane.
Ma, mentre venivano probabilmente salvate quelle stortignaccole, la torre da 200 metri “pensata” dei giovani genovesi, è stata invece massacrata. Letizia Moratti ha spiegato che era un’idea provvisoria solo per dare un po’ di identità al progetto che doveva correre per l’Expo. Adesso – ha spiegato il sindaco – si punterà su scelte più ecologiche. Alcuni architetti critici hanno appoggiato la scelta del sindaco dicendo che oggi c’è bisogno di “lasciare dei segni” più che di “costruire dei simboli”.
Collateralmente sono partite campagne ideologicamente orientate contro i grattacieli. Interessante in questo senso le posizioni espresse da Michael Meaffy sul Corriere della Sera (27 maggio): “Con i grattacieli si finisce per concentrare le persone in piccoli nodi, spesso lasciando grandi vuoti urbani nei quali non si può passeggiare”. Meaffy è un urbanista “critico” di valore, anche se l’idea che la capitale dei grattacieli Manhattan sia caratterizzata da vuoti urbani nei “quali non si può passeggiare”, mi sembra difficile da condividere.
Più convincenti sono alcune osservazioni sull’energia necessaria per la manutenzione di edifici particolarmente alti. Anche se l’architettura prevede anche edifici particolari, non strettamente valutabili secondo regole economiche, con forti funzioni simboliche.
Altro argomento di grande peso è quello del contesto: cioè dei paesaggi spaesanti che edifici scelti per una logica da star dell’architettura, estranea al territorio circostante, possono determinare. E’ divertente notare come alcuni architetti dominanti per lunghi anni a Milano, tipo Vittorio Gregotti, usino questo argomento quando devono difendere il proprio monopolio, diventando globalisti e internazionalisti quando sono invece loro a progettare chessò in Cina.
C’è un certo clima di strapaese contro stramondo in alcune diatribe, anche se il nodo del “contesto” non deve essere evitato: Milano è segnata in larghe parti del suo edificato da immobili dotati di una loro autonomia e tradizione, che non vanno offese. Naturalmente questo non vale per tutta la città. Per esempio l’area della Vecchia Fiera è contraddistinta da un’architettura novecentista che non viene affatto deturpata dalla costruzione di un complesso di tre grattacieli.
Ancora più ridicolo è il discorso sull’area della Nuova Fiera a Rho-Pero nelle cui prossimità verrà ospitata l’Expo. Questo era il luogo di grandi e inquinanti raffinerie. Spendersi per una strenua difesa del genius loci appare particolarmente ridicolo.
Più in generale, una riflessione andrebbe svolta sulla fisionomia complessiva della futura Expo. Il Corriere della Sera che pare essersi assunto il ruolo di “organo” delle posizioni più conservatrici (quanto mutato da quel quotidiano che negli anni Sessanta guidò la battaglia per la costruzione della rete metropolitana), più per una questione di temperamento della redazione (stanca e rancorosa) che della direzione (molto distratta) e tanto meno della proprietà (dove gli interessi edificatori sono assai forti) si batte molto per un’Expo ecologica e ha lanciato come centro della manifestazione la costruzione di un parco per bambini. C’è un piccolo problema: si riuscirà a portare in sei mesi qualche decina di milioni di persone a visitare un parco per bambini? Negli anni più recenti un’Expo ha adottato i criteri minimalistici proposti dal Corriere, ed è stata quella di Hannover del 2000. Risultato un tremendo flop. Le altre Expo con tanti son e lumiéres in più magari saranno state urbanisticamente poco provvedute (come Siviglia dove i padiglioni non sono stati pensati per adeguate future utilizzazioni e costituiscono ora una specie di cimitero dell’architettura contemporanea) ma hanno consentito un successo incredibile (con – anche nella capitale andalusa – annesso piano di modernizzazione della città e del suo ruolo internazionale). Certo il meglio è stata l’Expo di Lisbona ricca di “pensiero” urbanistico, ma anche di quel glamour che in certe prese di posizione milanesi oggi viene drammaticamente sottovalutato e che ha consentito il successo dell’iniziativa.