Al Cremlino si combatte una guerra ma non è chiaro da che parte sta Putin
02 Novembre 2009
La Russia si è avvitata in una congiuntura turbolenta, da cui non sembra poter uscire senza pesanti trasformazioni. La crisi economica globale ha avuto un impatto più duro e prolungato, perché ha colpito le criticità strutturali del sistema produttivo. A sua volta la profonda commistione tra potere politico e potere economico genera una crisi di sistema che si trasmette fino al Cremlino. Perciò la soluzione della crisi richiede una doppia manovra, poiché una riforma strutturale dell’economia comporta anche una radicale alterazione degli equilibri politici.
E’ la tesi sostenuta da Stratfor, compagnia americana di analisi geopolitica, che ha recentemente pubblicato un ciclo di report intitolato Kremlin Wars, “le guerre del Cremlino”. Il soggetto della ricerca è l’antagonismo tra i clan che si fronteggiano al Cremlino davanti alla dilagante crisi economica. Questi clan non sono “partiti” in senso classico, ma neppure strutture clandestine. Sono gruppi chiusi dove l’appartenenza è fondata su una determinata visione del potere e sulla condivisione di ruoli pubblici di altissimo prestigio.
L’analisi di Stratfor si focalizza su due clan: i “siloviki” e i “civiliki”. I primi derivano la loro etichetta da “sila” ovvero “forza”, da cui l’aggettivo plurale “siloviki” per indicare, letteralmente, “gli uomini dotati di potere”. (Infatti nel linguaggio istituzionale la formula precisa è silovye struktury, ovvero "le strutture di potere"). I siloviki sono personalità che, nella maggioranza dei casi, provengono dagli alti quadri dell’ex Kgb; molti di loro hanno lavorato nella amministrazione comunale di San Pietroburgo, quando Putin ricopriva ruoli di grande importanza nella città, e attualmente governano gli apparati dello stato e dei suoi conglomerati economici.
Stratfor identifica il leader dei siloviki in Igor Sechin, una sorta di icona dell’èlite di Putin. Sin dal 1991 Sechin ha lavorato fedelmente al fianco dell’attuale premier, assumendo la direzione dell’amministrazione presidenziale dall’inizio alla fine del doppio mandato di Putin.
Le risorse di Sechin e dei siloviki sono sotto il controllo dell’Fsb, il successore del Kgb, da cui provengono figure di punta dell’establishment, come il ministro degli interni Rashid Nurgaliyev, che controlla circa 250,000 agenti tra milizie poliziesche e forze militari; oppure lo speaker della Duma Boris Gryzlov, che nel 2005 ebbe a dire “il parlamento non è un luogo dove si discute”; e ancora Nikolai Patrushev, il successore di Putin alla direzione dell’Fsb; Sergei Bogdanchikov, presidente di Rosneft, il colosso del petrolio e infine Sergei Chemezov, ex agente Kgb a Dresda insieme a Putin nonché attuale presidente di Rosoboronexport, il monopolista nella produzione e vendita di armi russe nel mondo.
La tesi di Stratfor è che la crisi economica abbia seriamente colpito il potere economico dei siloviki. Il loro profilo di uomini di potere non si è mai accordato con l’esigenza di un management autenticamente imprenditoriale all’interno di un sistema economico modernizzato secondo gli standard occidentali: competizione, investimenti stranieri, efficienza, lotta agli sprechi, emancipazione da una politica industriale basata unicamente sullo sfruttamento delle risorse energetiche.
Per avviare un ciclo di riforme strutturali nell’economia russa occorre un cambio di potere – ecco il perno della ricerca di Stratfor – che può realizzarsi col predominio del clan opposto ai siloviki, i “civiliki”. Il termine è molto ambiguo: può essere sia un gioco di parole (civiliki vs. siloviki) oppure può stare a indicare il progetto di rivalutare la società civile come un soggetto politico della Russia di oggi. La figura di riferimento di questi gruppi è Vladislav Surkov, primo vice capo dell’amministrazione presidenziale e consigliere personale di Putin.
Il teorema economico dei civiliki è incardinato sull’impossibilità di proseguire con una gestione dell’economia in mano alla mentalità burocratica e politica dei siloviki. Le grandi imprese russe, dominate dai siloviki, non hanno retto alla crisi, facendo ricorso al credito delle banche che a loro volta non hanno avuto altra scelta se non sottoscrivere cospicui obbligazioni statali. L’effetto finale è che l’esiguo credito statale non è bastato alle aziende, mentre le banche, esaurite le loro riserve, sono finite sotto il controllo dello stato, sommerso da crediti che probabilmente non saranno mai ripagati.
Questo spiega perché tra i civiliki spicchi il nome di German Gref, il presidente di Sberbank, la banca più grande della Russia e dell’Europa orientale, che il 22 ottobre scorso ha annunciato un crollo di profitto da inizio anno pari a 312 milioni di dollari, pari –91% rispetto allo stesso periodo del 2008. Insieme a lui c’è lo storico ministro delle finanze Alexei Kudrin e il ministro dell’economia Elvira Nabiullina.
Secondo Stratfor il piano dei civiliki per mettere in scacco i siloviki prevede tre mosse. Primo: emarginare i siloviki dal comando delle aziende per sostituirli con un management professionale. Secondo: rimuovere i severi vincoli che impediscono agli investimenti stranieri di entrare in Russia e, terzo, procedere ad una nuova privatizzazione delle aziende così rigenerate. E’ la ricetta di Eltsin, se non fosse che questa volta la cabina di regia resta saldamente in mano al Cremlino.
La principale variabile dell’analisi di Stratfor è Putin. Per vocazione biografica e politica è l’architrave dei siloviki. Ma la congiuntura economica è talmente negativa da aver compromesso la sussistenza stessa dello status quo putiniano. Una svolta filo-occidentale dell’economia russa non è impossibile. Ma le sue conseguenze rischiano di stravolgere gli assetti di potere. Concedere carta bianca ai civiliki di Surkov non significa soltanto ritornare alle politiche capitaliste degli anni Novanta, peraltro caldamente condannate da Putin. Significa anche depotenziare sensibilmente i siloviki, col rischio di scatenare una guerra civile nel Cremlino, dove finora Putin ha adottato la tattica del “divide et impera” per impedire che un solo clan acquisisse l’egemonia sugli altri.
L’analisi di Stratfor emargina il ruolo del presidente Medvedev e dei potenti apparati della burocrazia, per concentrarsi sulle dinamiche interne del governo. Ma dopo l’articolo-manifesto “Russia, avanti!”, firmato da Medvedev all’inizio di settembre scorso, è evidente che la diarchia con Putin è terminata in modo conflittuale. Il presidente potrebbe ricandidarsi alle prossime presidenziali del 2012, proprio sfidando il suo primo ministro. In un arco di tempo più circoscritto, Medvedev ha lanciato l’ennesima campagna contro la corruzione, ormai dilagante. E’ una variabile che va inclusa nell’indagine sul potere russo, considerando che l’economia russa, sia quella pubblica che quella privata, è radicalmente consumata dalla corruzione.
La figura stessa di Surkov è ambivalente. Da una parte si è schierato contro Sechin e i bastioni dello statalismo post-sovietico. Ma è lo stesso uomo che nel 2003 ha messo in scena il processo contro l’oligarca Mikhail Khodorkovsky per poi sequestrarne l’impero economico, raccolto intorno a Yukos, il consorzio di imprese petrolifere che costituiva il cuore del potere degli oligarchi al tempo di Eltsin. L’attacco a Yukos, orchestrato proprio da Surkov, segnò l’inizio di quell’enorme processo di nazionalizzazioni da cui nacque Gazprom.
Non a caso il presidente di Gazprom, Alexei Miller, fa parte della cerchia di Surkov. Inoltre Surkov, di origini cecene, si rivelò decisivo al tempo delle guerre in Cecenia nel dividere il fronte separatista anti-russo e capovolgere le sorti dell’estenuante conflitto a Grozny. Spostando dalla parte di Mosca le milizie cecene avverse al wahhabismo dei ribelli filo-islamici, Surkov è stato il padrino politico dei Kadyrov, padre e figlio.
Noto alle cronache per la sistematica violazione dei diritti umani, Ramzan Kadyrov, l’attuale presidente ceceno, è diventato il baluardo del Cremlino e di Putin nel Caucaso russo. Questo rende difficoltoso associare Surkov alle istanze riformiste e liberali, forse perché il potere interno del Cremlino non è poi così tanto polarizzato, o forse perché gli stessi civiliki sono divisi tra una frangia più tecnocratica e una più liberale – e non sempre queste due frazioni compongono un’unità di pensiero e azione.
Data la situazione di crisi economica, l’alternativa di uno sviluppo capitalista dell’economia russa non è più utopica. Ma dobbiamo chiederci se anche in Russia una vera economia di mercato permetterà lo sviluppo di istituzioni veramente liberali e democratiche. Il Cremlino potrebbe ancora gestire il passaggio ad un’economia capitalista. Ma una Russia dove la competizione fosse estesa anche alla politica, fondata sui diritti e le libertà dei cittadini, sarebbe incompatibile col potere di Putin – ma anche di Surkov e dei civiliki.