Aldo Moro e la politica dimenticata
06 Aprile 2008
È un doppio tragico destino quello che è toccato ad Aldo Moro. Il rapimento, la prigionia e la barbara condanna a morte costituiscono la prima, e naturalmente, più dolorosa pagina. Ma accanto a questa, e in gran parte a causa di questa, oltre quarant’anni di protagonismo politico finiscono per essere dimenticati. La figura di Aldo Moro, la sua centralità in tutti i passaggi chiave della storia italiana, dal fascismo alla fase costituente, per passare ai governi del miracolo economico, al centro-sinistra e agli anni bui della contestazione e del terrorismo, finisce per essere schiacciata sulla disamina quasi morbosa di quei tragici 55 giorni. Ma Aldo Moro è stato molto più delle sue lettere dal carcere, del suo memoriale e della tragica alternativa tra il negoziato e la fermezza.
In una congiuntura per certi aspetti confusa come quella attraversata dalla politica italiana, nella quale ogni giorno si parla di ingerenze ecclesiastiche, di voto cattolico e di pluralismo delle scelte politiche da parte dei credenti, è forse interessante ricordare l’operato di Aldo Moro come segretario della Dc nel periodo 1959-1962. Tra il Congresso di Firenze dell’ottobre 1959 e quello di Napoli di fine gennaio 1962 Moro porta a termine la fondamentale trasformazione della Dc da «partito cattolico» a «partito di cattolici». L’avvicinamento alla formula di governo di centro-sinistra, la cui eccessiva lentezza finirà per svuotarlo di tutta la sua carica di innovazione e progettualità, è in realtà fondamentale perché il leader democristiano conduce il partito verso una fase di progressivo affrancamento dal controllo delle gerarchie ecclesiastiche. La fine del partito cattolico, così come teorizzata da Baget Bozzo circa venti anni prima del crollo della Dc, significa allora innanzitutto fine della supplenza del religioso sul politico.
Le radici di tale supplenza sono meglio comprensibili se analizzate alla luce del ruolo svolto dalla Chiesa dopo il crollo del fascismo. La Santa Sede è infatti determinante per la nascita della Dc e, se si escludono una parte degli ex-popolari, tutti i leader democristiani post 1945 si sono formati all’interno di organizzazioni giovanili cattoliche attive nel corso degli anni Trenta, ove formazione politica e formazione religiosa finivano per sovrapporsi. Così avviene per Fanfani, La Pira, Dossetti, Moro, Gonella, Andreotti e per certi aspetti anche per De Gasperi, anche se in lui determinante è la formazione giovanile trentina e gli anni trascorsi in Vaticano dopo l’uscita dal carcere fascista.
Moro, sul finire degli anni Cinquanta, viene portato alla guida del partito da quella corrente dorotea che ha abbandonato Iniziativa democratica e il suo leader Fanfani, in gran parte proprio opponendosi al progetto di centro-sinistra che il leader aretino aveva deciso di dispiegare dopo le elezioni legislative del 1958. Il nuovo segretario riuscirà a traghettare il partito verso la formula governativa di centro-sinistra, quell’incontro tra Dc e Psi del quale dieci anni prima aveva già parlato De Gasperi, e in questo percorso uscirà vittorioso da un braccio di ferro con i settori più conservatori delle gerarchie ecclesiastiche, arrivando alla definitiva autonomizzazione del partito.
La strategia del leader democristiano segue un doppio binario. Dal punto di vista dei rapporti interni alla Dc egli riesce a mantenere unito il partito proprio rivendicando la sua come sola leadership in grado di sintetizzare le numerose sensibilità e correnti interne.
Il versante però più interessante è quello ecclesiastico. Da un punto di vista dei rapporti religiosi egli avvia infatti, a partire dai primi mesi del 1960, quella che il sociologo bolognese Ardigò, in questa fase personalità di spicco della Direzione nazionale Dc, definisce «politica ecclesiastica». In sostanza Moro opera sfruttando da un lato le linee di frattura che si stanno manifestando nella fase di passaggio dal pontificato di Pio XII a quello di Giovanni XXIII e in quella di strutturazione della nascente Cei del cardinal Siri. Dall’altro lo sguardo sempre più benevolo proveniente dalla Santa Sede, e in particolare da un triangolo che al suo vertice ha il Santo Padre e alla base Capovilla, segretario particolare di Giovanni XXIII e Dell’Acqua, sostituto alla Segreteria di Stato.
Moro salta allora la mediazione della Cei di Siri e si rivolge direttamente ai vertici vaticani, avviando un costante invio di note e appunti per spiegare la propria decisione di aprire le porte del governo ai socialisti, ma soprattutto per dimostrare come le scelte di contingenza politica debbano restare separate dalla profonda ispirazione religiosa che sempre muove i leader democristiani nel loro operare politico.
Di fronte al celebre fondo I Punti fermi apparso su l’«Osservatore Romano» del 18 maggio 1960, probabilmente opera del cardinal Ottaviani e, come recenti scoperte archivistiche hanno mostrato, sul quale Giovanni XXIII aveva posto il veto, Moro risponde spiegando direttamente al Santo Padre la gradualità del suo progetto e soprattutto offrendo garanzia dal punto di vista religioso.
L’attacco di Siri si concentra invece in questa fase proprio sul versante della fede. Vengono infatti messe in dubbio la religiosità di Moro e, per accentuare l’accerchiamento, il segretario è addirittura avvicinato da un vecchio amico della Fuci, il quale ricorda l’apprensione degli ambienti di Ac di fronte alle sue scelte in direzione del Psi.
Ma Moro procede sulla sua strada e nel drammatico Consiglio Nazionale di fine maggio, vero e proprio capolavoro politico per come riuscirà a mantenere unito il partito, non esita ad affermare: «Finora la Dc ha sempre saputo trovare in avvenire questo tono e questo linguaggio dando all’elettorato cattolico tutte le garanzie di ordine morale che esso giustamente richiede. In tal modo com’essa ha dato, così darà ancora il suo responsabile apporto a quella unità dei cattolici in campo politico che è sommo bene, non solo sul piano religioso, ma anche su quello civile per il nostro paese».
Un nuovo passaggio critico si avrà con il varo delle cosiddette «giunte difficili», quelle amministrazioni locali, in particolare comuni e province del nord Italia (Genova, Milano, Venezia), dove la Dc sperimenta, per ragioni legate all’esito delle amministrative di novembre 1960, la formula di centro-sinistra. Gli attacchi della stampa cattolica non tardano ad arrivare e anche l’arcivescovo di Milano, quel cardinal Montini amico fin dagli anni Trenta di Moro, invita il leader Dc a fornire spiegazioni. Un editoriale de «Il Popolo» del 24 gennaio 1961, non firmato ma attribuito al segretario del partito, riassume bene la posizione morotea: «la Dc in tutte queste difficili vicende è presente con la sua autonomia ideologica e politica, con la sua forza elettorale, con il suo senso di responsabilità. Essa non ha fatto e non farà cedimenti di sorta. Soprattutto né ha tradito, né tradirà il suo elettorato come qua e là si insinua o si dice con pericolosa ed irresponsabile facilità».
Alla presa di posizione pubblica segue oramai, come consuetudine, quella privata. Il 27 gennaio 1961 si incontrano Don Andrea Spada, direttore del quotidiano cattolico «L’Eco di Bergamo», ma soprattutto uomo fidato di Loris Capovilla e quindi del pontefice, lo stesso Capovilla, Manzini, direttore de l’«Osservatore Romano», Scaglia, stretto collaboratore del segretario Dc, e lo stesso Moro. L’invio periodico di informazioni e promemoria in Vaticano viene istituzionalizzato e soprattutto si fa strada negli ambienti vaticani l’impressione che screditare i vertici politici democristiani finisca per alienare alla Dc parte del voto dell’elettorato cattolico o, fatto ancor più rischioso, portare alla nascita di un partito cattolico conservatore in competizione con la Dc.
Moro può oramai contare su una salda sponda oltre-Tevere. L’idea che sia la Chiesa che la Dc possano uscire rafforzate da una più netta separazione tra piano del religioso e piano del politico è oramai chiara nell’inner circle dei collaboratori di Giovanni XXIII, come una nota riservata di Mons. Dell’Acqua testimonia: «la Gerarchia si augura che la difficile posizione della Dc non sia aggravata o resa addirittura insostenibile da iniziative e atteggiamenti di persone o di organi di stampa che sotto pretesto di difendere l’ortodossia e gli interessi religiosi, svolgono in realtà una azione gravemente disorientatrice dell’opinione pubblica, tendono ad impegnare la Chiesa e determinano situazioni pericolose per l’ordine e la stabilità democratica in Italia».
Dopo il Congresso del Psi del marzo 1961 e soprattutto dopo il discorso del «Tevere più largo», in occasione dell’incontro ufficiale tra il Santo Padre e Fanfani dell’aprile dello stesso anno, le posizioni sono oramai chiare. Così Moro, in un incontro riservato con il Vice assistente Centrale dei laureati di Ac don Clemente Ciattaglia dei primi di settembre del 1961, può affermare: «La Segreteria della Dc sarà ben lieta di fornire alla Presidenza della CEI o di quelle Autorità della Chiesa che le saranno indicate, quelle informazioni e garanzie che rendano tranquillo il Rev.mo Clero, l’ACI e le Opere della Consulta, la Stampa Cattolica ed i Comitati Civici, nel far convergere in modo unanime i voti dell’elettorato Cattolico alle liste della Democrazia Cristiana».
Il congresso Dc che dovrà sancire l’apertura a sinistra e la conseguente assunzione di responsabilità e autonomia da parte di Moro nel suo operato politico è alle porte quando il leader democristiano non esita a fornire, durante un’intervista televisiva concessa ad Eugenio Scalfari, questa definizione: «la Dc non è un partito cattolico nel senso che sia un’espressione politica della gerarchia ecclesiastica. È un partito di cattolici i quali operano in rapporto ad una realtà temporale su di un terreno propriamente politico, che riguarda scelte di carattere tipicamente politico. Quindi l’autonomia del partito è stata rivendicata e credo sarà confermata nel prossimo congresso».
L’ultimo tentativo di pesante ingerenza pilotato da Siri si dimostrerà un fallimento soprattutto perché neutralizzato da un promemoria di Moro per il Santo Padre di alcuni giorni precedente all’apertura del Congresso di Napoli.
Nelle oltre sette ore di discorso del 27 gennaio 1962 dalla tribuna del teatro San Carlo egli non esita a ribadire che «i valori morali e religiosi ai quali la Dc s’ispira e che essa vuole tradurre in atto il più possibile nella realtà sociale e politica sono destinati ad affermarsi nella vita democratica del Paese, nel quale la Dc è inserita e nella quale essa li porta». Ma proprio questa funzione determinante della Democrazia cristiana deve essere condotta alle sue estreme conseguenze. «Per non impegnare l’autorità spirituale della Chiesa in una vicenda estremamente difficile e rischiosa c’è l’autonomia dei cattolici impegnati nella vita pubblica […] L’autonomia è la nostra assunzione di responsabilità, è il nostro correre da soli il nostro rischio, è il nostro modo personale di rendere un servizio e di dare, se è possibile, una testimonianza ai valori cristiani nella vita sociale».
L’insegnamento di Moro è tutto in questa definizione di autonomia dei cattolici. L’importanza dell’ispirazione cristiana nell’operare sul piano della politica non implica la perdita di autonomia, né d’altra parte l’impossibilità da parte delle gerarchie ecclesiastiche di esprimere il proprio legittimo punto di vista. Piano del religioso e piano del politico, entrambi fondamentali, procedono nell’ottica morotea in parallelo. La supplenza della Chiesa nei confronti della politica, così decisiva nella fase post-bellica, è però conclusa. Moro afferma in maniera chiara: ora c’è la Dc, con la sua ispirazione cristiana e la sua autonomia politica. Siamo all’inizio degli anni Sessanta e non bisogna dimenticarlo. La maggior parte di quelle condizioni storico-politiche è mutata. Eppure l’insegnamento di Moro mantiene una sua attualità forte. Contro le odierne semplificazioni e contro la fittizia e sterile contesa tra i laicisti assoluti e i clericali per forza, l’esperienza morotea dovrebbe essere, se non fonte di ispirazione, perlomeno spunto di riflessione.