Alexandr Solzhenitsyn dai gulag al mito della Grande Russia
10 Agosto 2008
“Dopo che la salma di Solzhenitsyn è stata seppellita, con un funerale di Stato, nel cimitero del monastero di Donskoj, si può tentare di fare un bilancio sul ruolo che questo scrittore e dissidente ha giocato, nella storia della Russia e in quella mondiale, nella lotta contro il totalitarismo.”
Victor Zaslavsky, professore ordinario di Sociologia Politica alla Luiss Guido Carli di Roma, ripercorre con noi la vita dell’uomo che, a partire dal romanzo breve “Una giornata di Ivan Denisovic”, aprì gli occhi ai cittadini sovietici e al mondo sulla realtà dei campi di concentramento (Gulag) sovietici. Se, fino ad allora, l’Urss era ancora ricordata come la liberatrice dell’umanità dal totalitarismo nazista, dopo la pubblicazione e la grande diffusione dei libri di Alexandr Solzhenitsyn, in Occidente si incominciò a realizzare che si trattava di un altro totalitarismo, speculare a quello che aveva combattuto e vinto nella II Guerra Mondiale. Il “mai più”, accettato universalmente dopo la liberazione dei prigionieri dai lager nazisti, divenne un “sta accadendo ancora”, sotto un’altra ideologia e in dimensioni ancora più colossali, oltre i confini dell’allora impenetrabile cortina di ferro.
Professor Zaslavsky, che effetto fece la pubblicazione di “Una giornata di Ivan Denisovic” in Unione Sovietica, nel 1962?
La storia di questo romanzo breve e di come giunse alla sua pubblicazione, rimane un esempio di come un capolavoro della letteratura possa compiere un miracolo. Il poeta Alexandr Tvardovskij, capo redattore nella più importante rivista letteraria sovietica “Novyj Mir”, raccontò di aver ricevuto questo manoscritto tra i tanti, redatto da uno sconosciuto insegnante di matematica di provincia. Era già andato a letto convinto di leggere solo per pochi minuti prima di rifiutarlo. Dopo avere scorso qualche pagina, ne rimase sconvolto, si rivestì (raccontò di essersi rimesso anche la cravatta) e continuò a leggerlo per tutta la notte. Si accorse immediatamente dell’enorme importanza letteraria di quel romanzo breve, scritto in uno stile che era all’altezza di un moderno Tolstoj. Ma come si sarebbe potuta aggirare la censura? Perché fu evidente sin da subito che il libro non avrebbe passato la barriera della censura. Tvardovskij riuscì a presentare il manoscritto direttamente a Nikita Chrushev attraverso il suo assistente personale Lebedev. Era noto che Lebedev leggesse dei brani a Chrushev ad alta voce. Quando gli lesse questo romanzo, Chrushev ne fu così commosso che ne ordinò personalmente la pubblicazione, saltando tutta la catena di comando del potente apparato della propaganda. Fu una scelta che fece indignare tutti i vertici del comunismo internazionale e fu uno dei primi passi di Chrushev che portarono alla sua defenestrazione. Che avvenne appena due anni dopo. “Una giornata di Ivan Denisovic” fu un successo immediato. Il numero dela rivista “Novyj Mir” divenne ben presto introvabile e il romanzo breve fu letto da milioni di persone, in Unione Sovietica e all’estero.
E dopo che Chrushev uscì di scena?
Dopo il “Ivan Denisovic”, Solzhenitsyn pubblicò alcuni racconti brevi e scrisse due romanzi “Il primo cerchio” e “Reparto cancro”. “Il primo cerchio” è una citazione dantesca, si riferisce al primo girone infernale. In questo caso, Solzhenitsyn descrive le condizioni di vita nel campo di concentramento riservato alle “persone utili” al regime, tra cui scienziati e tecnici del calibro di Tupolev, costruttore dei migliori aerei sovietici. Infatti Tupolev con tutto il personale del suo gruppo di costruttori fu arrestato, messo in un campo di concentramento e costretto a progettare gli aerei sotto la minaccia di rimanere nel campo per sempre nel caso dell’insuccesso dei suoi modelli. Quel genere di detenuti fu trattato come dei privilegiati in confronto agli altri prigionieri. Nel frattempo, però, Chrushev era uscito di scena e questi romanzi non potevano essere pubblicati. Divennero ugualmente molto famosi, ma sotto forma di samizdat, di pubblicazione clandestina. Il Kgb trovò in lui un formidabile avversario. Sapeva anticipare sempre le mosse dei suoi inseguitori. Il regime tentò di comprarlo, ma Solzhenitsyn si rivelò un incorruttibile. Nel 1967 ai membri dell’Unione degli Scrittori indirizzò un appello, “Vivere senza menzogna”, in cui invitava a non conformarsi alle menzogne ufficiali. Ben 80 membri dell’Unione sottoscrissero quell’appello. Malgrado ciò nel 1969 fu espulso dall’Unione degli Scrittori. Nello stesso periodo Solzhenitsyn stava lavorando sul suo lavoro più imponente, “Arcipelago Gulag”, un libro-inchiesta basato non solo sulla sua esperienza, ma anche su numerose interviste a ex detenuti. Ovviamente un lavoro così vasto richiedeva anche la collaborazione di altre persone, di dattilografi e personale per il suo editing. Il Kgb riuscì a mettere la mani su una delle sue collaboratrici, la bibliotecaria Elizabeta Voronjanskaja. Era una persona di grande cultura e di ferma moralità. Arrestata e sottoposta a diversi giorni di tortura psicologica, minacciata di pesanti ritorsioni sulla sua famiglia, dovette rivelare il luogo in cui era nascosto il manoscritto. Una volta rilasciata, si suicidò. Il Kgb riuscì in questo modo a mettere le mani sul manoscritto di “Arcipelago Gulag”. Erano convinti che quel libro avrebbe fatto la fine di “Vita e destino” di Vassilij Grossman, libro sequestrato 10 anni prima e che, a detta dell’allora segretario seconda del Politburo responsabile per l’ideologia, Mikhail Suslov, non avrebbe visto la luce nei successivi 200 anni. Ma nessuno sapeva che Solzhenitsyn nascondeva anche una seconda copia del dattiloscritto di “Arcipelago Gulag”.
Che effetto fece “Arcipelago Gulag” in Occidente?
In Occidente fece scalpore, specialmente in Francia dove condizionò gli intellettuali di sinistra. Fu quello il testo che fece partire il movimento revisionista dei “nouveaux philosophes” (André Glucksmann, Alain Finkielkraut, Bernard Henri Lévy e altri) che ruppe con il marxismo e con la sinistra. In Italia, “Arcipelago Gulag” ebbe molte più difficoltà e fu spesso osteggiato da parte dei detentori dell’”egemonia culturale”. Il caso letterario suscitò l’indignazione dei vertici sovietici, che decisero a quel punto di esiliare lo scrittore dissidente, dopo che ebbe vinto il premio Nobel per la letteratura. Anche in quel caso, Solzhenitsyn riuscì ad anticipare le mosse dei suoi persecutori: quando vennero ad arrestarlo, si era già rivestito con la sua vecchia casacca da prigioniero. Fu espulso dall’Urss nel 1974, un anno dopo la pubblicazione in Occidente di “Arcipelago Gulag”.
In Unione Sovietica i cittadini erano a conoscenza del sistema dei campi di concentramento?
Tutti i cittadini sovietici sapevano dei campi di concentramento. Ma la loro era, come per tutto il resto, una conoscenza frammentaria, basata su testimonianze dei parenti e amici imprigionati, esperienze vissute e pareri personali. Da questo punto di vista, “Arcipelago Gulag” ebbe un impatto enorme, perché era il primo lavoro non basato su un’unica esperienza particolare, ma il frutto di una grande indagine, una specie di enciclopedia del mondo dei campi.
Per Solzhenitsyn, l’origine del sistema dei campi di concentramento è una deviazione del sistema socialista reale sovietico o è insita nella natura comunista del regime?
La ricerca di Solzhenitsyn lo portò a vedere in Lenin e non in Stalin l’origine del sistema dei campi: in Lenin, in Trotzkij e nel primo periodo di potere del regime bolscevico. Certo, con Stalin, il sistema raggiunse le sue dimensioni massime, ma la sua causa va ricercata già nella presa del potere da parte dei bolscevichi e nell’instaurazione del regime monopartitico marxista-leninista.
Quale fu l’antidoto morale e politico proposto da Solzhenitsyn per resistere al comunismo?
Questo è un aspetto molto difficile del pensiero di Solzhenitsyn. Di sicuro era un oppositore del sistema comunista, un oppositore esemplare. Ma sotto molti aspetti era speculare al regime. Non tollerava il pluralismo. Condannò liberaldemocratici e socialdemocratici. Contestò il leader del dissenso di stampo liberaldemocratico accademico Andrej Sacharov. Bisogna ricordare che non tutti gli oppositori la pensavano allo stesso modo: c’erano liberali, socialisti, monarchici….
Solzhenitsyn visse in America, ma non volle mai imparare l’inglese, condusse un’esistenza ritirata nel Vermont. Non volle mai entrare nella vita americana. Non pronunciò che pochi discorsi in pubblico, quasi tutti riguardanti la fragilità spirituale dell’Occidente, giudicandolo troppo debole per combattere contro il comunismo. Nell’esilio iniziò a scrivere “La ruota rossa”, una monumentale storia della fine della Russia imperiale e degli origini della rivoluzione bolscevica. Cambiò radicalmente il suo stile di scrittura, utilizzando ampiamente arcaismi, parole dialettali e coniando neologismi. L’idea è già presente ne “Il primo cerchio” in cui un personaggio con i tratti biografici dello stesso scrittore individua l’origine di tutti i mali della Russia nell’influenza occidentale. Per contrastarla tenta di ritornare a una lingua russa “pura”, evitando l’uso delle parole entrate in russo dalle lingue europee. Il risultato di questa scelta stilistica di Solzhenitsyn è che i dieci volumi di “La ruota rossa”, restano una lettura impossibile persino per gli intellettuali russi. Gli stranieri sono accusati di tutti i mali.
Nell’ultimo libro “Duecento anni assieme” Solzhenitsyn affronta il tema dell’ebraismo in Russia. Lo storico Richard Pipes lo ha contestato per aver esagerato il ruolo degli ebrei nel regime bolscevico e Solzhenitsyn è stato accusato di antisemitismo per questo suo lavoro. Critica fondata?
Non è possibile accusare Solzhenitsyn di antisemitismo in senso stretto. Vedeva gli ebrei come stranieri, estranei. L’ebreo cosmopolita non era parte del corpo sociale russo. In questo modo escludeva dalla tradizione russa anche fior di poeti russi, come Pasternak e Mandelstam. “Duecento anni assieme” non è un vero e proprio lavoro di ricerca, perché si basa su libri di seconda mano e rappresenta un certo declino di Solzhenitsyn come pensatore politico. Infatti, lo scrittore russo fin dall’inizio si considerava una specie di profeta scelto dalla Provvidenza per indicare alla Russia la strada di salvezza. La sua guarigione miracolosa dal cancro lo indusse a credere che quello fosse un segno divino per indicargli la sua predestinazione. Solzhenitsyn espresse le sue idee sul futuro della Russia nel periodo della perestrojka gorbaceviana con il saggio “Come ricostruire la nostra Russia” publicato nella “Literaturnaja gazeta” di Mosca. La sua idea centrale era: sciogliere l’Urss, espellere le repubbliche centro-asiatiche, caucasiche e baltiche e unificare in uno Stato, puramente slavo, Russia, Ucraina e Bielorussia. Ovviamente l’idea di chiedere l’opinione degli ucraini che sognavano l’indipendenza non gli venne neanche in mente.
L’idea di riunificare Russia, Ucraina e Bielorussia è simile anche alla dottrina di politica estera di Putin. Solzhenitsyn ebbe una certa influenza sulla nuova Russia?
Quando ritornò in patria, nel 1994, fu accolto come un eroe da gran parte dei russi, ma presto li deluse. Non lo seguirono quando iniziò a parlare contro il consumismo: era solo da poco che un popolo affranto dalle mancanze di beni di consumo sotto il regime sovietico poteva tornare a comprare qualcosa e le sue prediche apparivano del tutto fuori luogo. Il suo programma televisivo, in cui si confrontava con ospiti in studio, divenne ben presto una serie di suoi monologhi, proprio come un predicatore. Il programma fu cancellato per bassa audience. Dal punto di vista politico, Solzhenitsyn odiò da subito Eltsin perché, pur con tutti i suoi limiti, era un democratico e un politico che desiderava di tornare in Europa. Lo accusò di voler distruggere il Paese. Negli ultimi anni ha stimato molto di più Putin, che lo ha prontamente ricambiato. Perché Putin è fautore dell’idea di uno Stato forte, che riprende il controllo della Russia, una delle idee centrali anche nel pensiero di Solzhenitsyn. Il suo punto di riferimento storico fu sempre Piotr Stolypin, il primo ministro dell’ultimo zar Nicola II che tentò, con metodi molto duri, di riformare la Russia, distruggendo la comunità contadina a cui contadini furono legati amministrativamente e rendendoli proprietari terrieri. E non vi riuscì perché fu assassinato nel 1911 da Dmitrij Bogrov, un terrorista rivoluzionario di origine ebraica, – altro elemento che ha alimentato le teorie di Solzhenitsyn sugli ebrei. Da un certo punto di vista, Stolypin fu un politico che puntò sulle riforme liberali: nascita della piccola proprietà terriera e distruzione conseguente del sistema arcaico e collettivista russo. Ma per Solzhenitsyn divenne il simbolo di una Russia grande potenza imperiale, saldamente fedele ai suoi valori religiosi. Stolypin diceva “Voi volete grandi rivoluzioni, a noi serve la Grande Russia”. Ed è proprio questo ideale della Grande Russia tenuta insieme da uno forte stato centrale che accomuna Stolypin, Solzhenitsyn e Putin.