Alla corte di Margherita

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Alla corte di Margherita

02 Novembre 2008

Nel millenovecentotrenta entra in qualità di bibliotecario al Senato del Regno  e di lì a breve comincia farsi un nome “come giornalista, polemista, scrittore acuto e vivace”. Inizia così la “Prefazione” di  Francesco Perfetti al librino di Manlio Lupinacci, nato agli albori del “Secolo breve” e scomparso nel millenovecentoottantadue.

Lo scritto, dedicato a “La regina Margherita”, doveva essere una specie di canovaccio di un’opera più ampia, che l’autore si era impegnato a sfornare per i tipi della Rizzoli. Lupinacci, che in quel periodo aveva già  conseguito una discreta popolarità grazie a una biografia romanzata dedicata a “La Duchessa di Berry” (intrigante capofila dei legittimisti transalpini), con il testo sulla più amata figura di casa Savoia si proponeva di bissare il successo. Ma i fatti presero un andazzo differente. “Lupinacci era”, scrive ancora Perfetti, “un uomo profondamente liberale, che considerava il liberalismo non tanto o non solo un’ideologia politica quanto piuttosto uno stile di vita”. Nei suoi scritti “era sempre presente quella sua visione liberale e conservatrice che lo spingeva a guardare con amore ovvero con simpatia il secolo XIX, quello della Francia borghese ma anche dell’Italia postunitaria, tempi di solidità morale e di costumi integri, di stabilità sociale e di buoni sentimenti”. La “deriva assunta dal fascismo” (leggi razziali, entrata in guerra e così via) lo spingono così non solo a un’opposizione sempre più netta, ma anche a mettere fra parentesi le sue inclinazioni letterarie per puntare dritto al giornalismo politico. Nasce da quella svolta il Lupinacci opinionista post bellico, ovvero una delle personalità di spicco del polo moderato dell’informazione nazionale. Eppure, l’abbozzo sulla consorte di Umberto I, letto a distanza di settant’anni, regge ancora l’usura del tempo e resta uno schizzo godibile e un esempio di buona prosa storiografica.

Lupinacci idealizza, simpatizza, vede soprattutto i pregi e lascia un po’ in disparte i demeriti, eppure del ruolo pubblico di Margherita, coglie certi tratti essenziali. A cominciare dalla capacità della sovrana nel rendere più cordiale, dopo gli irsuti debutti del suocero, i rapporti fra la casata e i  sudditi. “Forse i contemporanei”, scrive Lupinacci, “non si resero conto dell’arte finissima, vera arte politica, con la quale Margherita scelse il suo atteggiamento, le tonalità del suo modo di essere. Il fasto le era interdetto dalle diffidenze della democrazia, e ancor più dalla impossibilità di uguagliare la magnificenza papale. La modestia in quel regno appena nato, in quella capitale appena conquistata, avrebbe voluto dire poco meno che oblio. Essa scelse per la sua regalità l’abito più difficile a portarsi: la signorilità”.  Crea dal nulla la vita di corte, incoraggia artisti e letterati. Si fa trovare aggiornata sulle novità culturali del momento. Il suo talento seduttivo tocca lo zenit quando strappa alla democrazia il suo bardo, l’arcigno Carducci. Da quell’istante, il poeta maremmano le sarà devotissimo, cantandone in più di un’occasione grazia e intelligente lungimiranza. Margherita ha tuttavia qualche difettuccio. Partecipa infatti a quell’intreccio di idee e manovre che sul finire del secolo portano la Nuova Italia sull’orlo della guerra civile e della svolta autoritaria. Eppoi dopo la morte violenta dell’augusto marito, per mano dell’anarchico Gaetano Bresci, sebbene sia messa in disparte dal figlio, Vittorio Emanuele III, qualche capatina non proprio felice nell’agone politico nazionale pure se la permette. E non nasconde certe tardive simpatie verso dei ragazzotti che indossavano abitualmente la camicia nera.

Manlio Lupinacci, “La regina Margherita”, Le Lettere, pagine 74, euro 9,50.