Alla scuola serve disciplina non i soliti pedagogisti
18 Marzo 2008
scuola ci consegnano le solite giornate di ordinaria follia. Un professore
acconsente volentieri a farsi una canna con i suoi studenti e a farsi
riprendere per Youtube. Viene sospeso ma i suoi allievi lo difendono e le famiglie
al più bofonchiano. Una professoressa viene messa sotto accusa perché “troppo
severa” e “stressa” i poveri figlioletti e le famiglie sollecitano
accanitamente un’ispezione ministeriale, mentre il preside e i colleghi
tacciono.
Intanto, a ondate, i giornali
si riempiono delle solite paginate sull’ignoranza degli studenti italiani, in
particolare in matematica. Lo fanno soltanto quando arriva qualche statistica o
sondaggio: ormai queste sono le uniche informazioni che vengono prese sul
serio, a prescindere dalla loro serietà. Al contrario, sulle statistiche fatte
mediante “somministrazione” di test che non sono affatto al riparo da critiche,
bisognerebbe andarci cauti. D’altra parte, qualsiasi buon insegnante sa da un
pezzo che la scuola e l’università italiane sono ridotte a colabrodi da cui
filtrano migliaia di ignoranti tanto crassi quanto presuntuosi e arroganti. Ma
pare che questi pareri non contino. Fanno testo soltanto le statistiche, anche
se fatte da incompetenti filtrati dal colabrodo di cui sopra. Come non
interessa affatto approfondire le cause dello sfacelo: il permissivismo,
l’assenza di disciplina e di rigore, le norme che consentono di andare avanti
senza essere mai penalizzati o fermati e di scegliersi un paio di materie da
non studiare (tra cui, manco a dirlo, la matematica), l’afflusso di docenti
sempre più impreparati come conseguenza delle infornate di “precari” imposte
dai sindacati, l’indecente sistema di reclutamento mediante le ineffabili
Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario, le pessime
“indicazioni nazionali”, il crollo del livello dei contenuti dell’insegnamento,
la qualità decrescente dei libri di testo come conseguenza della delega di
fatto della stesura dei programmi alle case editrici, ecc. ecc. Soprattutto non
si dice, a chiare note, che per nutrire qualche speranza di far riemergere a
galla la scuola occorrerebbe spezzare con decisione la perversa triade che la
tiene sotto controllo: i sindacati, la burocrazia ministeriale e le
confraternite dei pedagogisti che occupano trasversalmente il ruolo di
consulenti indipendentemente dai governi al potere.
Sono anche numerosi i libri che
hanno denunciato questa catastrofe, hanno analizzato le cause e indicato dei
rimedi. A parte il mio recente Chi sono i
nemici della scienza? (Lindau, 2008) – cortesemente recensito qui da G. O.
Longo – va ricordato l’ottimo libro di Lucio Russo, Segmenti e bastoncini. Dove sta andando la scuola? (Feltrinelli,
2001). Ed è facile constatare che gli stessi mali si producono nello stesso identico
modo in altri paesi europei. Si legga, ad esempio il libro di Liliane Lurçat, Vers une école totalitaire, La
destruction de l’enseignement élémentaire et ses penseurs (F.-X. De
Guibert, 2001) che denuncia il rischio di una «scuola di massa disegnata dai
pedagogisti che ispirano le decisioni ministeriali con l’ambizione di
rivoluzionare la società iniziando con i bambini». Il mezzo per realizzare
questo fine, dice Lurçat, è appunto «il pedagogismo, cioè la pretesa di fare
della pedagogia un “in sé” superiore a tutte le discipline». Assieme al celebre
matematico Laurent Lafforgue, Lurçat ha scritto un altro interessante libro: L.
Lafforgue, L. Lurçat, La débâcle de
l’école. Une tragédie incomprise (F.-X. De Guibert, 2007). Sul fronte della
Spagna, si legga A. Delibes Liniers, La
gran estafa. El secuestro del sentido comun en la educación (Madrid, Grupo
Unisón ediciones, 2006). Stessi problemi, stesse analisi, stesse proposte per
iniziare a rimediare.
Niente. Si preferisce lo
scandalo banale, il clamore, le chiacchiere e il ricorso ai soliti luoghi
comuni impartiti proprio da coloro che hanno combinato il disastro. Nel
dedicare una paginata alla catastrofe educativa il Corriere della Sera non ha
trovato di meglio che dare spazio a una proposta proveniente dall’Inghilterra e
cioè di liberare i ragazzi dai compiti a casa perché, poveretti, sono
stressati… Sul medesimo Corriere della Sera (16 novembre 2007) Massimo
Piattelli Palmarini aveva descritto molto bene la situazione. Vale la pena di
citare per esteso:
«Il caso della matematica è esemplare. Dopo aver tentato di tutto per
renderla più accessibile ed intuitiva, compresa la sciagurata riforma chiamata
New Math, nella quale tutto si basava sulle nozioni (supposte) elementari
dell’insiemistica, e dopo aver introdotto nella classe di matematica
bilancette, palloni gonfiabili, forbici e cartone (la tanto incensata
manualità), si è dovuto constatare che i risultati erano modesti. Allora si
pensò di espellere completamente le operazioni aritmetiche e far leva sulle
calcolatrici tascabili. Ne uscivano ragazzi schiavi dell’elettronica e incapaci
di ragionare in astratto. Molte piccole e grandi riforme ne sono seguite, ma si
constata ancora oggi, nei principali dipartimenti universitari di matematica,
la strapresenza di giovani studiosi provenienti dall’India, Giappone e Corea.
Più della metà dei dottorati superiori in matematica nelle università americane
vengono conseguiti da cittadini di altri Paesi, in prevalenza del lontano
Oriente. Durante una mia recente visita a Seul ho constatato che ragazzi e
ragazze di dieci o dodici anni trovano perfettamente normale stare a tavolino
cinque o sei ore al giorno, dopo la scuola, per fare i compiti. Da noi e negli
Stati Uniti, invece, è emerso il concetto che non bisogna mettere mai un
ragazzo di fronte a un insuccesso. La resa di conti, inevitabile, viene
rimandata a sempre più tardi, magari agli inizi della professione. Anche nei
nostri porti si accumulano i container e forse qualche matematico inventerà un
modo costruttivo di utilizzarli. L’alternativa a un vasto e vigoroso impegno,
infatti, è quella di rassegnarci ad essere consumatori di prodotti inventati in
Occidente e fabbricati in Oriente. Fino a quando anche l’invenzione non passerà
di mano. Fino a quando quei brillanti scolari dagli occhi a mandorla
raggiungeranno l’età per essere progettisti».
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Ben detto. Basta consultare i programmi di matematica indiani per
rendersi conto che gli studenti indiani sono avanti di tre anni rispetto ai
nostri, semplicemente perché studiano la matematica come facevamo noi
trent’anni fa. Ma invece di prenderne atto e ricavarne le dovute conseguenze,
dalli in direzione contraria, con l’abolizione dei compiti a casa, per la
felicità dei pargoletti. Felici e asini, come i ragazzi del Paese dei Balocchi
di Pinocchio.
E invece di stare a sentire chi dice cose sensate si ricomincia a
intervistare e a cercare la salvezza presso i protagonisti della catastrofe, i
soliti pedagogisti che ormai sembrano aver fatto propria la parola d’ordine di
Veltroni: far finta di essere sempre stati all’opposizione. Il caso vuole che
costoro siano stati consulenti da tempo immemorabile di ministri di
centrosinistra e di centrodestra (e quasi sempre loro con pochi cambiamenti) e
in tale veste abbiano redatto tutte le Indicazioni nazionali incluse quelle
informate all’idea della scuola “olistica” e alle scempiaggini zapateriste
dell’educazione alla Convivenza civile. Intervistati dalla stampa, a commento
della catastrofe che avveniva sotto i loro occhi “innocenti”, ripropongono con
una pertinacia degna di miglior causa la stessa ricetta: basta con i programmi,
pensiamo all’“educazione”, basta con le materie, pensiamo alla formazione
“globale”. Da quando mondo è mondo ogni civiltà degna di questo nome ha
coltivato la cultura strutturandola in forma disciplinare, sia pure con
l’evidente mutazione storica dei confini e anche delle definizioni delle
discipline. Costoro vogliono introdurre una rivoluzione epocale: ridurre la
cultura a una melassa indistinta in cui le conoscenze sono soltanto un
sottoprodotto accidentale dell’ “educazione”, manco a dirlo impartita secondo i
precetti dei pedagogisti, supercasta trasversale che sarebbe stata preposta –
non si sa in nome di quale diritto naturale – al controllo complessivo del processo
di formazione.
La lettura dei programmi delle varie formazioni politiche che si
presentano alle elezioni è alquanto deludente sul tema della scuola. A quanto
pare, un tema che è centrale per il futuro della nostra società non appare
degno di considerazione. Sarebbe tuttavia bene che al mondo politico e al
futuro governo fosse chiaro che, ove venisse riproposta – su consiglio dei
soliti noti – la solita indigesta zuppa pedagoghese, a base di
autoapprendimenti con contorno di educazione all’affettività in un contesto
invariato di dittatura burocratico-sindacale, non ci si dovrà stupire di
trovarsi di fronte a un malcontento e a una disaffezione senza fondo, la cui
dimensione sfugge a causa del filtro nei confronti della realtà esercitato
dalla confraternita dei consiglieri di cui sopra. E le critiche saranno senza
sconti.