
Alle origini del grande equivoco

09 Giugno 2007
Dalla caduta del muro di Berlino, ma forse
anche prima, tutti in Italia si definiscono liberali. Persino la simpatica
collega di ‘Filosofia Morale’ che vota Rifondazione Comunista e il sociologo,collaboratore
de ’Il Manifesto’, che, nel suo corso sull’immigrazione, commenta gli scritti
di Mao. Si potrebbe parlare, in questi casi, di omaggio del vizio (stalinista)
alla virtù (liberale) ma, in realtà, non si tratta solo di questo. Il fatto è
che da qualche tempo la nobile tematica dei ‘diritti’ è diventata così generosa
da consentire agli sconfitti del ‘socialismo reale’ di rimettersi in gioco
dando alle vecchie idee nuovi abiti semantici. Ormai nella città occidentale
posta sotto assedio si entra solo acquattandosi nel ventre del cavallo di Troia
dei ‘nuovi diritti’. Forse, almeno nel nostro paese, a consentire un espediente
del genere è stato, tra gli altri, Norberto Bobbio con la sua Età dei diritti, o almeno una cattiva
lettura di quel libro.
In poche parole, qual è il grande equivoco all’origine
%0Adei sempre più frequenti travestimenti ideologici? E’ la vecchia idea – che
troviamo sia in Marx che nei pensatori reazionari come De Maistre – che i
diritti ‘astratti’ del cittadino – la triade di John Locke: vita, libertà,
proprietà – siano una beffa per quanti, i più, non sono in grado di farli
valere, in mancanza di risorse adeguate. A cosa mi serve avere la libertà di
andare a Milano se non ho i soldi per pagarmi il biglietto del treno o
dell’aereo?”Quann sta chiena a panza ciascuno po’ parlà”, recita un adagio
napoletano di tanti anni fa, che aggiunge che a pancia vuota, uno se ne
strafotte “d’a patria e d’a libertà’”. Sennonché, anche i padri del liberalismo,
che non erano degli ingenui, avrebbero condiviso questa massima di buonsenso: a
dividerli dalle legioni dei nemici del mercato e del capitalismo era il soggetto
che avrebbe dovuto provvedere a riempire la pancia dei cittadini. Per i
socialisti ‘scientifici’ o ‘’utopistici’ quel soggetto doveva essere lo Stato
o, quanto meno, un arcipelago di associazioni
‘dal basso’ liberamente fluttuanti in oceani liberati dalle alghe e dai
mostri marini dell’interesse privato – e, soprattutto, dai pescicani bancari.
Per i liberali, il compito di produrre benessere per tutti era affidato,
invece, alla ‘società civile’, al gioco degli interessi e dei valori, alla
libera concorrenza, alle conquiste della scienza e della tecnologia.
E’
superfluo dire a chi abbia dato ragione la storia: valga il solo esempio della
Cina che, per sfamare i suoi miliardi di abitanti, ha dovuto riaprire le porte
a un capitalismo dickensiano, da Londra dei primi anni dell’ottocento (bassi
salari, poche garanzie sul lavoro, orari disumani etc.). Se l’esempio cinese ha contribuito, in
notevole misura, al discredito del comunismo – nell’Europa occidentale solo da noi
si trovano due partiti, oggi al governo, che ad esso si richiamano apertis verbis – non è stato però
sufficiente a rimettere in discussione non solo il nomen ma anche la res. Ed
è qui che ‘l’ideologia dei diritti ha
dato una mano. Beninteso, è segno di una più elevata etica pubblica la loro
proliferazione incessante, al centro del testo di Bobbio e, prima di lui, di
altri pensatori occidentali, come T. Marshall, teorici delle ‘generazioni
successive dei diritti’ – diritti civili, diritti politici, diritti sociali.
Ciò su cui si dovrebbe far luce è lo status
di tutti quei diritti che rinvia a un problema cruciale: se stanno tutti sullo
stesso piano, in caso di conflitti tra gli uni e gli altri, quali debbono avere
la precedenza? Se tutti hanno diritto a un lavoro (come prescrive la nostra
Costituzione, nel suo versante non liberale) e, se la libertà ‘politica’ di
organizzare partiti e movimenti, si rivelerà un ostacolo insormontabile al
riconoscimento di quel diritto – per assicurare un lavoro e una casa a tutti è
giocoforza collettivizzare l’economia – perché non dovrebbe esserne consentita
la sospensione? Certo si può sempre ricorrere all’escamotage, tipico della political
culture azionista, per cui ‘giustizia’ e ‘libertà’ vanno sempre insieme e
chi si batte per l’una, non può non farsi carico delle ragioni dell’altra ma,
purtroppo, non è con la retorica buonista che si risolvono i problemi
drammatici dell’umana convivenza.
A mio avviso, occorrerebbe un sostanziale
passo indietro: continuiamo pure a chiamare diritti sia quelli civili che
quelli politici che quelli sociali (e si potrebbero aggiungere quelli ‘animali’
non meno rilevanti sotto il profilo etico) ma riserviamo soltanto ai primi due
la marchiatura costituzionale. Nel senso che una maggioranza di governo non può
in alcun modo attentare, ad es., alla mia libertà di coscienza o di
associazione, riposte nella cassaforte della ‘magna carta’, ma può ben
decidere, attraverso la legislazione ordinaria, quali ‘diritti sociali’ vanno
tutelati, alla luce delle risorse concrete del bilancio statale, e quali invece
possono aspettare. Quanti come me hanno “Benjamin Constant nella mente e
Filippo Turati nel cuore” si collocano a sinistra proprio nella convinzione che
in un’epoca come la nostra, contrassegnata dal sentimento della radicale
eguaglianza di tutti gli uomini, occorra fare quanto è possibile per venire
incontro ai bisogni degli inquilini dei piani bassi della piramide sociale. Ma,
per dirla brutalmente, restando sul piano delle ‘provvidenze’ sulle quali si
può essere in legittimo disaccordo e che, pertanto, vanno sottoposte al
giudizio del ‘popolo sovrano’ . Del tutto diversa, invece, è la tutela del
diritto di proprietà, il cui godimento può (e deve) essere regolamentato, ma in
nessun modo può essere ‘svuotato’.Se, ad esempio, per l’acquisto della prima
casa ho contratto un mutuo con le banche e se sul bene immobile grava una ICI
così pesante da indurmi a rinunciarvi, si configura chiaramente (lo fa fatto
rilevare assai bene Piero Ostellino) l’azzeramento di un diritto di”prima
generazione”. Che si verifica altresì nel caso che alcuni–imprese pubbliche o
private, centrali, automobili, aerei etc.– mettano in pericolo la salute di
tutti. (Se sul mio terreno si riversano scarichi e gas tossici che ne rendono
l’aria irrespirabile, debbo poter rivendicare tutti i miei biechi
vetero-diritti individualistico-proprietari, infischiandomene altamente,
dell’’utilità sociale’ e dei costi aggiuntivi che sarebbero costretti a
sopportare le fabbriche inquinanti!).
Senza una chiara gerarchia di diritti – per la
quale alcuni restano nel tabernacolo costituzionale mentre altri sono affidati
alla borsa-valori del Parlamento – non c’è liberalismo ma una terra di nessuno
in cui possono verificarsi i meno ‘casti connubi’ e le transazioni più
indecenti.