Alle origini del sionismo

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Alle origini del sionismo

23 Settembre 2007

L’intervista a David Gelernter,
apparsa recentemente su L’Occidentale,
ha rilanciato l’attualità del “sionismo”, termine politico misconosciuto e
spesso frainteso. Lo scienziato americano sostiene che gli Stati Uniti,
contrariamente a quanto si pensa, basino il proprio tessuto civile su dei valori
religiosi, conferiti loro dai primi coloni e, in particolare, dai Padri
pellegrini che fondarono lo stato del Massachusetts; tali princìpi non sarebbero
altro che una versione moderna ed “atlantica” del sionismo
vetero-testamentario, riconoscibile nel credo americano d’essere il popolo
eletto: “In God we trust” iscritto sulle banconote è ben di più di una semplice
professione di fede, significa “In Dio confidiamo” più di quanto voglia dire
“In Dio crediamo” ed è espressione del convincimento d’essere parte di una
moderna alleanza con Dio, simile a quella di cui si parla nell’Antico
Testamento a proposito dei figli d’Israele.

Tale riproposizione si affianca
ai recenti volumi di Magdi Allam, Viva
Israele. Dall’ideologia della morte alla civiltà della vita: la mia storia
(Mondatori),
e Fiamma Nirenstein, Israele siamo noi
(Rizzoli), i quali entrambi, a diverso titolo, fondano le loro tesi sul
“sionismo reale” su cui si è edificato lo stato d’Israele. In particolare, il
secondo fronteggia i pregiudizi più diffusi nei confronti del sionismo, non
raramente equiparato ad una dottrina imperialista e razzista, in quanto Israele
occuperebbe territori che non gli spettano. Viceversa, sostiene Magdi Allam,
Israele è oggi l’unica democrazia inserita nella regione araba e l’unico stato
che, professando i valori occidentali, in questo difficile contesto renda
omaggio alla vita come bene ultimo e superiore a cui non è possibile abdicare,
a fronte dell’ideologia della morte propagandata dal terrorismo islamico.

Ma cosa significa esattamente
“sionismo” e quali sono le vicende sue specifiche? Alla domanda non dissimile “Perché
studiare il sionismo?” Ilan Greilsammer, docente di scienze politiche
all’Università Bar Ilan e autore di un omonimo volumetto introduttivo in queste
settimane pubblicato in Italia da Il Mulino, risponde semplicemente: “Perché
questa ideologia costituisce il fondamento dello stato di Israele, uno stato
che malgrado le dimensioni ridotte si ritrova costantemente al centro
dell’attualità internazionale”.

Con la parola “sionismo” si
indica propriamente una dottrina politica nata nel tardo Ottocento, grazie
all’iniziativa di Theodor Herzl (1860-1904), un giornalista austriaco di
origine ebree che, trovandosi a Parigi negli anni dell’affaire Dreyfus (il presunto tradimento di un ufficiale
dell’esercito francese, ebreo alsaziano, rivelatosi poi del tutto privo di
fondamento e frutto invece dei pregiudizi antisemiti di alcuni colleghi), in
questo frangente trovò le radici della propria identità e una battaglia a cui
votare i propri sforzi. Il testo con cui Herzl consegnò le tesi del sionismo
moderno è Lo stato ebraico, scritto
che presto divenne la Bibbia del sionismo. In esso si parla esplicitamente
della ricostituzione della nazione ebraica, mediante la formazione di un’unità
politica, in pratica uno stato sovrano, in Terra d’Israele (Erez Yisrael), per dare compimento alle
scritture e superare definitivamente la diaspora che, obtorto collo, era stata il destino del popolo ebraico da tempo
immemore.

Etimologicamente il vocabolo
deriva da “Sion”, il monte su cui la tradizione vuole vi sia stato il primo
insediamento umano in Gerusalemme. Nel movimento sionista trovano convergenza
tre diversi fattori, che sul piano culturale ne costituiscono il principale
alimento: l’aspirazione messianica degli ebrei che, nonostante la durezza delle
persecuzioni, hanno sempre mantenuto viva la fede nella venuta di un Messia che
li avrebbe liberati dagli affanni e condotti alla Terra promessa (Erez Yisrael); in chiave più moderna ed ottocentesca
in particolare, la disillusione nei confronti delle ipotesi di soddisfacente
integrazione nelle realtà sociali e politiche della diaspora e, quindi, l’incontro
della cultura ebraica con il concetto di nazionalità che, ammantato
d’idealismo, ha attraversato tutto l’Ottocento parlando un linguaggio che
poneva al centro dell’attenzione l’emancipazione dei popoli oppressi in
contesti in cui la presenza ebrea era massiccia e significativa (si pensi per
esempio all’impero austro-ungarico).

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Nato quindi come dottrina politica nutrita di ascendenze
teologiche, il sionismo, come ci insegnano i libri citati in esordio ma anche altri
usciti in questi anni, sta conoscendo oggi un’estensione di significato a
fronte dell’offensiva islamista, ponendosi non solo come l’elaborazione concettuale
che giustifica la fondazione dello stato d’Israele, ma pure, in termini
simbolici e nel contempo estremamente concreti, il baluardo ed insieme l’avamposto
dei valori liberaldemocratici in un cotesto in cui questi sono ancora minoritari
e non raramente bistrattati.

davideg.bianchi@libero.it