Alle radici della pena di morte in America

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Alle radici della pena di morte in America

06 Aprile 2007

Non c’è niente che delizi di più l’antiamericanista nostrano (ed europeo) che puntare il dito contro la barbarie della pena di morte in vigore negli Stati Uniti, una sorta di simbolo di quell’impero del male di marca occidentale che con una mano dice di voler esportare la democrazia, e con l’altra manda i propri cittadini sulla sedia elettrica o di fronte al plotone di esecuzione. E come resistere alla tentazione di aggiungere, con sorriso saccente, che proprio quello stato che ha prodotto il presidente George W. Bush, il Texas, è il maggiore responsabile di esecuzioni capitali (366 dal 1976 al 2006), mentre quello che ha dato i natali alla famiglia Kennedy, il Massachusetts, è uno dei dodici stati (più il District of Columbia) in cui la pena di morte è stata abolita?

Non abbiamo dubbi sul fatto che la pena di morte prima o poi verrà abolita in tutti gli Stati Uniti, vale a dire negli stati che ancora non l’hanno fatto, nonchè a livello di persone colpevoli di reati federali e sottoposti a giurisdizione militare. Se ognuno di noi può dare il suo giudizio morale sulla liceità della pena di morte, quel che è certo è che ogni revisione di processo che porti alla scoperta dell’innocenza del presunto colpevole (già giustiziato o in attesa di giudizio), ogni esecuzione di un esponente di una minoranza etnica o di una donna (anche se bianchi e donne sono stati rispettivamente il 57% e l’1% del totale), e ogni film di successo (come non ricordare Il miglio verde, il film con Tom Hanks del 1999) non fa che rafforzare la causa degli abolizionisti. Coloro che sono invece a favore della pena di morte non potranno mai dimostrare che la pena capitale è servita come deterrente a nuovi crimini e ha migliorato la società, non esistendo alcuna controprova certa e definitiva.

Anche nel caso della pena di morte, in realtà, gli Stati Uniti rappresentano una realtà non univoca e in perenne mutazione.  C’è da una parte un grande rispetto della legge, tanto della lettera quanto dello spirito della stessa. “It’s the law” (“Così dice la legge”) è una frase ricorrente tra gli americani, in politica, nelle aule di tribunali, così come nelle strade e nelle famiglie, quando nel nostro paese ci si riempe la bocca di “rispetto della Costituzione” (e dell’impossibilità di modificarla), mentre la fiducia nella legge e della sua applicabilità è praticamente uguale a zero. E dunque, negli Stati Uniti, finché la pena di morte è legge e rimane una prerogativa degli stati, questa va applicata fino in fondo (anche se il buon senso sempre più ne posticipa il momento finale).

Ma dietro alla pena di morte c’è anche, per quanto ciò possa sembrare contraddittorio, l’ottimistica speranza che l’applicazione della legge sia effettivamente l’espressione di una volontà popolare, che così controlla le sue deviazioni  e i suoi eccessi, rendendo possibile la convivenza tra le persona e il miglioramento della società. Al di là degli eccessi, degli errori, degli intenti punitivi, dei linciaggi (i famosi mob lynching) razziali e non, insomma di tutti quegli episodi di cui è punteggiata la storia americana prima e dopo la Rivoluzione, e che spesso vengono attribuiti allo “spirito della frontiera” e alla voglia di vigilantismo, resta nella società americana la fiducia nel fatto, quando il due process of law sia stato rispettato fino in fondo, il risultato non possa che essere il compimento della giustizia e, nel contempo, un passo verso un mondo migliore per i law abiders, coloro che la legge la rispettano tutti i giorni. Personalmente, siamo contro la pena di morte perché riteniamo che non serva a migliorare la società. Ma restiamo pieni di ammirazione per una società, come quella americana, che da una parte continua ad applicare le sue leggi fino in fondo e dall’altra le rimette continuamente in discussione, ma sempre rispettando, fino in fondo, il due process of law.