“All’inferno Mubarak”: è Avigdor Lieberman il Bossi israeliano
18 Marzo 2009
Gerusalemme. “Siamo pronti a dimenticare le dichiarazioni passate e a guardare avanti”. Così l’ambasciatore egiziano in Israele, Yasser Rida, ad un parlamentare del Likud, in un recente faccia a faccia. Le dichiarazioni passate che l’Egitto è pronto a dimenticare sono quelle di Avigdor Lieberman. Con il suo linguaggio schietto, affilato, il leader di Israel Beitenu è la versione mediorentale del leader della Lega Umberto Bossi. “Mubarak? Che vada all’inferno”, “Se l’Egitto ci attacca, bombarderemo la diga di Assuan” sono esempi del suo poco diplomatico approccio nei riguardi dell’alleato arabo. E ora proprio lui sembra destinato a guidare la diplomazia israeliana nell’anno in cui il nodo iraniano rischia di venire drammaticamente al pettine.
La sinistra israeliana, uscita annientata dalle elezioni del 10 febbraio, lo vede con il fumo agli occhi.
Lieberman è un personaggio poliedrico. Da giovane, in Moldavia faceva il buttafuori in locali notturni, ma in Israele, dov’è emigrato all’inizio degli anni Ottanta, non si è solo scoperto un leader in grado di trascinare in due legislature il suo partito al terzo posto, ma anche businessman e sceneggiatore. Quattro anni bussò alla porta di Idit Shehori, sceneggiatrice di fama internazionale, per presentarle il porgetto di un thriller storico sull’Islam. Prese anche contatti con un produttore americano, per la realizzazione del film. “E’ stata la più grande sorpresa della mia vita – racconta ora la Shehori – Non condivido nulla delle sue idee politiche, ma Yvet è una persona che sa scrivere. E che ama il cinema”. Il progetto, che non è mai decollato, è all’origine dei guai giudiziari di Lieberman, finito nel mirino degli inquirenti per i lauti stipendi, decine di migliaia di dollari, versati sul suo conto dalla società della figlia, Michal Lieberman, la stessa società che ha anche finanziato il progetto cinematografico.
Lieberman non usa giri di parole. In campagna elettorale ha cavalcato la tigre della paura di un fronte interno, la minoranza arabo-israliana scesa in piazza a fianco dei palestinesi durante la guerra a Gaza, minacciando di chiedere una dichiarazione di fedeltà come condizione per la cittadinanza. Il leader di Israel Beitenu ritiene superato il principio “pace in cambio dei territori”; non crede che il conflitto arabo israliano abbia un’origine territoriale; è convinto che Israele si trovi nella prima linea di uno scontro tra Islam radicale e Occidente.
Le sue parole spesso sono travisate stumentalmente. Una accusa ricorrente lo descrive come propugnatore della deportazione della minoranza araba. La proposta di Lieberman, invece, è quella di ridisegnare i confini di Israele lungo linee etniche, proponendo all’Autorità Palestinese l’annessione delle aree oggi sotto sovranità israeliana
Ma se, come oggi appare probabile, il governo Netanyahu sarà formato dai soli partiti di destra, sarà davvero Lieberman a procurare i maggiori mal di pancia internazionali al futuro premier? Lo esclude Danny Ayalon, ex ambasciatore israliano negli Usa, arruolato nella squadra di Israel Beitenu. “Nella nostra piattaforma non c’è nulla contro un particolare gruppo etnico. L’unica distinzione che facciamo è tra coloro che sostengono il terrorismo e coloro che vi si oppongono” . Ma un ministro degli Esteri guardato con sospetto dal mondo arabo non è destinato ad entrare in rotta di collisione con l’amministrazione Obama? Ayalon sorride dietro gli occhiali rotondi. “Le relazioni tra Israele e Stati Uniti sono strategiche. Abbiamo gli stessi valori e gli stessi interessi. Specialmente in tempi pericolosi, quali quelli attuali.
A non far trascorrere notti serene a Netaniahu non è Lieberman.