All’Italia non basta l’accordo tra Ue e Turchia

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All’Italia non basta l’accordo tra Ue e Turchia

07 Aprile 2016

Caro Direttore,

la terza legge di Newton prevede che a ogni azione corrisponda una reazione uguale e contraria. Ciò significa che nell’affrontare un problema oltre a valutare i fatti si debbano considerare anche le loro conseguenze: quelle immediate e quelle che logica e buon senso non consentono di escludere. Del resto, quando si evoca un’evenienza anche solo al fine di negarla, vuol dire che quell’evenienza non solo è plausibile, ma è talvolta non lontana dal realizzarsi.

Partiamo dai fatti. E’ un fatto l’accordo (a titolo oneroso) stipulato dal Consiglio Europeo con la Turchia per blindare ai flussi migratori l’accesso alla rotta balcanica. E’ un fatto che la trattativa con Ankara abbia riportato la rotta libica al centro dei flussi, con la conseguenza che gli sbarchi nel nostro Paese hanno subìto una nuova impennata: fra gli altri lo aveva previsto l’ex premier Enrico Letta, eppure il governo ha presentato il costoso affaire turco come un grande affare per il nostro Paese.

In questo la benevolenza degli apparati comunicativi aiuta: se il suo predecessore con “Mare Nostrum” doveva fare i conti con i bollettini quotidiani dei “clandestini” approdati a Lampedusa, Matteo Renzi può contare sulla più accattivante contabilità delle “vite salvate”. Al di là della veste mediatica, tuttavia, la sostanza non cambia. Anzi.

E ancora. E’ un fatto – ce lo raccontano le cronache di questi giorni – che in Grecia quotidianamente stiano arrivando molti più profughi di quelli che vengono reimbarcati con destinazione Turchia. Non è invece ad oggi un fatto, ma è un’evenienza che a questo punto nessuno è in grado di escludere, che parte delle masse migratorie che premono sulla Grecia possano riversarsi sulle coste pugliesi attraverso il corridoio adriatico che via mare collega il nostro Paese alla vicina Albania.

Del resto, esperti e analisti avevano paventato questa possibilità prima ancora che il bilancio tra arrivi e partenze dalle isole elleniche manifestasse tutte le sue criticità, e lo stesso ministro dell’Interno italiano, pur fra mille parole di rassicurazione, aveva ammesso che la riorganizzazione dei trafficanti di uomini sulla rotta Albania/Puglia è un rischio che bisogna prepararsi a fronteggiare.

In ogni caso, lungi dall’essere una panacea, la chiusura della rotta balcanica via Turchia ha riportato il nostro Paese – e in particolare le regioni del Mezzogiorno d’Italia – ad essere crocevia dei flussi. Non sappiamo se si tratti di un rischio calcolato o di un clamoroso errore di valutazione. Quel che è certo è che, se da questa situazione si vuole sperare di trarre una opportunità, l’unica strada è quella di pretendere dall’Europa che il negoziato con Ankara non sia un episodio isolato imposto per alleggerire le frontiere della Germania, ma un caso-pilota per sperimentare un metodo da replicare con altri Paesi.

L’Italia ha dimostrato di non aver paura di avere un’anima. La Puglia in particolare: quando nei primi anni Novanta decine di migliaia di profughi provenienti dall’Albania elessero il Belpaese a terra promessa e si riversarono sulle coste pugliesi, la nostra Regione si dimostrò solida e solidale. Il punto, insomma, non è sottrarsi alla solidarietà possibile, e tantomeno negare che la nostra terra ne sia capace.

Il punto è un altro. Perché la solidarietà sia autentica e non pelosa, bisogna intervenire a monte per scongiurare tragedie umanitarie in tratti di mare fra loro diversi ma altrettanto pericolosi. Perché la solidarietà sia sostenibile e non si trasformi in una guerra tra poveri, bisogna prevenire ed evitare fenomeni dall’impatto devastante sulla stagione turistica che è fonte di sostentamento per tante famiglie meridionali e pugliesi in particolare.

Perché la solidarietà sia un onere condiviso e trasparente e non uno scarica-barile tollerato magari in nome di qualche piccolo e opaco indotto economico, bisogna che ci si assuma ognuno la propria responsabilità. Bisogna che si ricordi all’Europa che il Trattato di Schengen è stato sottoscritto per assicurare la libera circolazione delle persone e non per scaricare sull’anello della catena geograficamente più esposto il peso di flussi migratori storicamente eccezionali: un peso incommensurabilmente maggiore del ritorno localistico e clientelare che può derivare dal maxi centro di accoglienza di turno.

Cosa fare, dunque? Innanzi tutto, da parte delle istituzioni ci si aspetta verità. Bisogna riconoscere che il quadro dei flussi si è già complicato a sud e rischia di complicarsi a est, anche a costo di dover ammettere che in sede europea per l’ennesima volta non si è riusciti ad affiancare ai pur legittimi interessi nazionali altrui le esigenze del nostro Paese. E bisogna pretendere che in caso di necessità gli accordi stipulati con Ankara possano essere replicati altrove, a cominciare dall’Albania.

Non si tratta di giocare al rialzo nel tappare falle a suon di miliardi (che comunque sono anche nostri!), ma di assumere la consapevolezza di un comune destino, soprattutto se ciò avviene nei confronti di governi che, rispetto a quello turco, nel contesto geopolitico e sotto il profilo dei diritti umani fondamentali appaiono meno distanti da noi. Bisogna pensarci oggi. Non dopo l’ennesima invasione. Soprattutto, non dopo l’ennesima tragedia.

(Tratto da Gazzetta del Mezzogiorno)