Allucinazione razzista in una traduzione politicamente scorretta

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Allucinazione razzista in una traduzione politicamente scorretta

15 Dicembre 2020

Il giornalista collettivo e i commentatori sportivi ci informano da giorni che il quarto uomo rumeno della partita tra il più famoso Paris Saint-Germain, carico di stelle calcistiche, e una più oscura formazione turca, il Başakşehir, è stato protagonista di un episodio a sfondo “razzista” nei confronti di un componente di quest’ultimo club. Tutti i giocatori delle due squadre, a seguito dell’episodio, si sono rifiutati di giocare e la partita è stata rinviata al giorno successivo, dotandola di una terna arbitrale diversa, nel generale coro dei commentatori secondo cui quel quarto uomo “non verrà mai più visto in partite di livello internazionale”.

C’è un importante e inquietante interesse politico in questo episodio se lo si ricostruisce attentamente senza i paraocchi dell’isteria generale progressista: il quarto uomo stava indicando all’arbitro un membro della panchina, un assistente tecnico – che non è un giocatore –, per farlo espellere a causa delle sue eccessive proteste. Per poterlo riconoscere in mezzo agli altri – che neri non erano – ha indicato in rumeno all’arbitro che l’assistente da espellere era quello «negru». Il soggetto in questione, equivocando la parola, quasi certamente per risentimento effettivo ma forse anche per ottenere un clamore che facesse dimenticare di aver meritato l’espulsione, ha iniziato ad indignarsi con l’arbitro perché era stato apostrofato come “negro” e tutti i giornalisti riportano esattamente questo.

Il punto è che questa si rivela essere una delle fake news più grandi possibili ed indica bene il livello da immondizia di gran parte dell’“informazione”. Sebbene si possa discutere già sul fatto che la parola italiana negro sia discriminatoria di per sé e che lo siano tutte quelle parole simili presenti in altre lingue e non lo sia semmai invece il solo nigger americano per precise ragioni storiche e sebbene dunque si possa discutere anche sul fatto che sia illegittima questa estensione, avvenuta negli ultimi decenni, del significato di nigger a qualsiasi altro termine apparentemente simile di altre lingue (tra cui quella italiana) che non condivide però lo stesso spettro semantico e la stessa origine storica, qualora si prenda pure per buona questa perfetta e inesistente identità semantica tra le parole, il fatto è che in questo caso non si è in presenza del corrispettivo rumeno della parola negro perché semplicemente in rumeno, così come avviene in spagnolo, il colore nero, derivando dal latino nigrum, si dice negru. La parola non ha connotazioni di tipo razziale e dunque men che meno razzistiche, ma soltanto attinenti alla colorazione di qualsiasi tipo: può essere «negru» un fluidul (fluido), può esserlo il pământul (il suolo), può esserlo naturalmente anche un essere umano per la pelle.

Di fatto, il quarto uomo ha semplicemente indicato una persona quale “black guy”, come si direbbe in inglese, ma lo ha fatto in rumeno anziché in inglese. L’arbitro ha provato a spiegarlo brevemente a tutti i presenti, rimarcando come il quarto uomo non parlasse bene inglese, ma questi non hanno voluto sentire ragioni. Lo scandalo è che anche i commentatori meno faziosi, in diretta televisiva subito dopo la partita, pur riconoscendo che non sia vero che l’assistente tecnico dei turchi sia stato apostrofato come “negro” e che in rumeno appunto nero (qualsiasi nero) si individui con quella parola, hanno continuato a stigmatizzare insensatamente il fatto, sostenendo che comunque anche il solo indicare una persona sulla base della pelle sarebbe “discriminatorio”, dovendosi invece indicare un giocatore tramite il “numero” di maglia. Peccato che, come detto, il soggetto indicato non fosse un giocatore, che dunque un quarto uomo non fosse tenuto a conoscerne il nome, che, anche se fosse stato un giocatore, non era affatto scontato che il quarto uomo potesse ricordarne il nome per via del fatto che quelli del campionato turco non sono calciatori talmente famosi da poterli ricordare per la notorietà diffusa, ed infine che, anche se fosse stato un giocatore, non sarebbe certo stato individuabile attraverso il numero, essendo tutti i giocatori in panchina coperti dalle tute. A questo punto, non conoscendone il nome, non avendo costui un numero di maglia, c’è da chiedersi in mezzo ad altri non neri, secondo quale caratteristica fisica il quarto uomo avrebbe dovuto aiutare l’arbitro nell’indicarglielo.

Ecco allora che un fraintendimento diviene per partito preso un’allucinazione collettiva a causa della giustificazione a prescindere di un evento – l’indignazione del soggetto espulso – che per definizione, impugnando una causa ritenuta “giusta” dal politicamente corretto, deve necessariamente essere applaudito da tutti per questo, al di là delle motivazioni e delle circostanze. Ora, se passa il messaggio che indicare una persona sulla base del colore della pelle sia tout court discriminatorio, significa che si sta raggiungendo un baratro di follia non più recuperabile. Indicare qualcuno come “il negro” può (forse – a seconda della lingua, come detto) essere insultante, ma indicare qualcuno come “il nero” o come “il bianco”, o come “il napoletano”, “il coreano”, il “pelo rosso”, “il biondo”, “il pelato”, od altro, vale a dire individuarlo sulla base di una sua diversa caratteristica fisica rispetto ad altri, non può essere di per sé una discriminazione, se a questo modo di individuazione del soggetto non si accompagna una qualche forma di dispregio che caratterizzi realmente quella individuazione come discriminatoria.

Dire il contrario significa certificare semplicemente che l’isteria di due mondi, come quello calcistico e quello mediatico che entrano nelle case di chiunque, possa pretendere che non si debba semplicemente più definire nessuno in alcun modo a causa di una retorica irrazionale che dimostra di non volere soltanto stigmatizzare giustamente lo spregio delle differenze, ma far invece leva su di un ugualitarismo totale che intende appiattire quelle differenze, fingere non esistano, considerandole di per sé una cosa disprezzabile in quanto differenze, laddove esse vengano anche minimamente prese in considerazione da qualcuno. Se ne rendano conto o meno gli allucinati coinvolti, in tal modo perfino l’“orgoglio nero” o quello “gay” (black pride, gay pride), che tanto piacciono loro, sarebbero di per sé illeciti perché farebbero leva sull’identificazione della persona su categorie precostituite come il colore della pelle, quello dei capelli o l’inclinazione sessuale: se il problema è che nessuno può essere ridotto ad una sua caratteristica, non soltanto così nessuno sarà più individuabile in un qualsiasi discorso se non con vaghi gesti della mano, ma soprattutto nessuno potrà rivendicare come determinante per sé una propria caratteristica specifica, nemmeno per esserne fiero.

Si tratta di una cosa che è a metà tra il patetico, il grottesco ed il totalitario, poiché impedisce anche le più elementari modalità di vivere ed esprimersi, e che è indice sicuro e definitivo si debba combattere con ogni mezzo tutte le campagne di sensibilizzazione apparentemente sacrosante portate avanti da media ed istituzioni (anche calcistiche), in quanto esse dimostrano di nascondere un fine che non è la sensibilizzazione verso le differenze ma, proprio all’opposto, la loro distruzione e colpevolizzazione dietro un apparente retorica dolciastra che pretenderebbe di proteggerle.