Altre 10 “ricostruzioni per l’uso” dopo il NO al referendum

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Altre 10 “ricostruzioni per l’uso” dopo il NO al referendum

12 Dicembre 2016

Premessa: il No ha bloccato un tentativo pasticciato (che peraltro comprendeva anche alcune limitate scelte condivisibili dentro una logica però disastrosa) di semplificare le procedure dello Stato italiano al prezzo di una vasta degradazione del nostro sistema liberaldemocratico. Dopo la parte destruens, come impostarne una costruens? 

1) La transizione. L’Italia ha bisogno di una chiara e ordinata transizione a un voto che ridia una vera base popolare alle istituzioni democratiche e non metta a rischio l’economia nazionale. E’ stato necessario approvare rapidamente una legge di stabilità pur essendo quella proposta piena di misure peronistiche. Sarà necessario salvare le grandi banche la cui crisi è stata trascurata da Juan Domingo Renzòn per concentrarsi sulle sue campagne plebiscitarie. Sarà necessario trasformare le sparate propagandistiche di Renzòn sull’Europa in una vera linea, sancita da un voto del Parlamento, che misuratamente si opponga all’egemonia bottegaio-ordoliberista di Berlino.

Sarà necessario scegliere un sistema elettorale (contenendo quel pazzo di Renzòn che vuol far saltare tutto per vendicarsi) che tenga conto della rabbia popolare diffusa e di quelle indispensabili garanzie liberaldemocratiche che ha ben sottolineato l’Economist (tra le prime la distinzione dei poteri dell’esecutivo dal legislativo cioè seppellendo il mostro Italicum): così a occhio il male minore è un sistema alla greca – sistema non per nulla studiato dagli inglesi – con un premio del 10 per cento alla prima lista che aiuta la governabilità ma lascia margini al parlamento per scegliere e condizionare il premier, in questo contesto visti i tempi sarà difficile puntare su una riforma dei collegi e quindi sarà impossibile evitare le preferenze (nonché imporre eletti senza preferenze).

Se ci fosse uno scatto di responsabilità si potrebbe togliere “puramente” al Senato la fiducia e la sfiducia sul governo (una riformetta costituzionale da fare in tre mesi) e sciogliere così uno dei problemi in campo. Ancora meglio, naturalmente, sarebbe sostituire il Senato con un’Assemblea costituente. Ma ci sarà il tempo? Infine non sarebbe male un patto tra “responsabili” sul che fare se non c’è una maggioranza politica chiara dopo il voto, per evitare nuove situazioni allo sbando.

2) Come riprendere la riflessione sulla riforma della Costituzione. Una parte della popolazione che ha votato No è principalmente esasperata con i politicastri al governo che hanno usato le questioni istituzionali per non affrontare i problemi più urgenti (urgenti però pericolosi dal punto di vista del consenso). Ma nel No vi è anche una forte componente consapevole che lo Stato italiano vada riformato in diversi elementi dei suoi ordinamenti. Così tutta una vasta area di cattolicesimo sociale con un’anima profondamente autonomista e spesso federalista offesa dai funzionalismi degli artefici materiali del pasticcetto Boschi, quelli per cui l’unico valore è la velocizzazione. E simile è l’orientamento dei riformisti municipalistici un’altra grande tradizione italiana, nonché quella dei democratici meridionalisti.

Decine di migliaia di cittadini hanno discusso su come riformare la Costituzione in modo alternativo al pasticcetto Boschi. A questi va dato uno sbocco concreto che non può non essere che la richiesta di un’Assemblea costituente che riformi la Carta fondamentale dello Stato sulla base di una riflessione sistemica, attenta e articolata, e non su logiche da Luna park tecnocratico. A questa area riformista del No corrisponde un’altrettanto vasta area di disperati del Sì, già consapevoli della mediocrità del “pasticcetto” ma sciaguratamente convinti che una rottura del clima fosse la priorità. Con loro è indispensabile riprendere il  dialogo rapidamente perché non siano travolti da qualche altra pensata di un Renzi irresponsabile e impazzito.

3) Un fronte del Sud. Il voto meridionale merita particolare attenzione perché ha spezzato quel legame con il tradizionale “governismo” di comunità concentrate solo sugli scambi clientelari (copiosi più che mai nelle ultime settimane). Nel voto del Sud c’è anche quella classica componente di pura rivolta che nei secoli non ha aiutato a costruire sbocchi positivi. Però è emersa pure una risposta culturale che va ora organizzata. E’ il momento in cui il riformismo meridionalista di matrice cattolica e liberale riprenda l’iniziativa. E per consentire questa ripresa è indispensabile che non prevalga la tendenza ad allargare e riprodurre solo ceto politico: ci vuole una vera battaglia culturale di massa. E ci vogliono scelte (pensiamo alla prossima sfida delle Regionali siciliane) che aiutino – torneremo sui “mezzi politici” necessari cioè innanzi tutto le primarie – a ottenere questo risultato, che cioè mobilitino forze intellettuali e imprenditoriali non vecchie e usurate.

4) Contratti e sviluppo. Finiti con mediocri risultati i son et lumière renziani nelle politiche del lavoro, è interessante invece il contratto dei metalmeccanici fatto anche, in parte, come atto di resistenza alla Confindustria cagnolino da guardia del governo e che apre alcune nuove vie ad accordi aziendali che dovranno diventare la via maestra delle relazioni industriali. Finita la refezione, si dovrà tornare al grande lavoro fatto dai Biagi, dai Maroni, dai Sacconi (e dai Bonanni) che ha preparato la via al miglior Marchionne e che poi è stato in parte rovinato dalle drammatiche astrattezze delle Fornero e dalle propagandistiche invadenze renziste. Anche il servilismo governativo  della Confindustria boccesca richiede che si riprenda una discussione culturale sul rapporto relazioni industriali-sviluppo che non si appiattisca sulla propaganda.

5) La nuova gioventù. Il voto del 4 dicembre è particolarmente esplosivo perché risulta che l’81 per cento di chi ha meno di 34 anni abbia votato No. Un esito clamoroso che indica un sentimento di rivolta sia pure in parte passiva, per certi versi superiore al ’68 quando alle elezioni non vi era questa cesura tra nuove generazioni e partiti di governo. E’ il frutto di come partiti e organizzazioni sociali hanno trattato la questione giovanile cioè come forma di cooptazione di alcuni talenti e non di risposta a una questione sociale strutturale. La rottamazione renzista in questo senso non è differente dalle altre due ondate di “largo ai giovani” e di contrapposizione generazionale che hanno segnato la storia dell’Italia unita: il fascismo e il ’68, risoltesi appunto con cooptazione di alcuni piuttosto che con una vera liberalizzazione della società che consentisse una reale dinamica sociale e generazionale.

Il renzismo ha avuto la sfortuna rispetto alle “ondate” precedenti di imbattersi subito nella tosta rivolta generazionale rappresentata dal grillismo, che mi pare abbia però assoluta difficoltà a esprimere risposte realistiche per le istanze che rappresenta. Ma nondimeno è in grado di dare voce a una rabbia reale e profonda. In questo quadro si tratta di spingere i numerosi giovani qualificati che si esprimono già oggi nei partiti per esempio di centrodestra a uscire da una logica prevalentemente da ceto politico e porsi invece come riferimento di movimenti concreti di liberalizzazione dei rapporti tra generazioni, chiedendo certamente rinnovamento ma senza rozzi, generici e qualunquistici inviti a rottamazioni. Un bel movimento della Nuova gioventù che sostenesse concrete liberalizzazioni nel sistema dell’istruzione, nella formazione di nuove imprese, nell’autorganizzazione mutualistica e in relazioni industriali che aiutassero l’occupazione giovanile potrebbe essere uno dei rimedi principali a una politica verso i millennial divisa tra propagandismo governativo con tinte peroniste e una protesta senza obiettivi strutturali.

6) Per sempre federalisti. Soprattutto il voto del Nord per il No ha il marchio di un consapevole federalismo offeso dalla pulsione neocentralista del renzismo (peraltro in piccolissima parte giustificata dalle storture introdotte dalla stessa sinistra nel Titolo V della Costituzione nel 2001, prepotentemente a maggioranza come è avvenuto con il pasticcetto Boschi  del 2016). E, poi, il rifiuto del clientelismo proposto da don Matteo delle Mance di cui si è scritto fa intravedere anche un’anima federalista del Sud. Si tratta di passare dal “clima” alle proposte. Personalmente sono sempre più affascinato dall’ipotesi di Miglio. E vorrei quattro macroregioni (una alpina, una tirrenica, una adriatica e una mediterranea). L’Italia nasce dalle repubbliche marinare e lì dovrebbe tornare, i porti (Genova, Venezia, Livorno, Napoli/sistema meridionale) diverrebbero i centri di riorganizzazione produttiva-distributiva  appoggiata dalle nuove istituzioni.  Probabilmente è solo un sogno, però i sogni aiutano a dibattere. E di questo c’è bisogno. Altro che i microfuzionalismi senza anima del pasticcetto Boschi.

7) Liberi territori. Oltre alle regioni vi sono le città metropolitane distrattamente impostate da  Mario Monti e Graziano Delrio: sono una schifezza. C’è la riforma dei Comuni largamente  limitata all’elezione diretta del sindaco e che presenta delle serie aporie. Quale è il vero ruolo di un assemblea consigliare con un primo cittadino eletto direttamente dal popolo? Come evitare insensati esiti come quelli di Padova? E insieme come bilanciare il potere di un sindaco eletto direttamente? Va studiato un sistema di revoca all’americana? Ci vogliono 36 distretti che medino tra regioni da modificare e centinaia di province abolite? La discussione sul sistema delle autonomie deve tornare centrale.

8) W l’Europa. Ma dall’Atlantico agli Urali. L’Italia (e il mondo peraltro) senza Europa corre gravi pericoli e immense difficoltà ad affrontare le sfide che le si presentano a cominciare da quella dell’immigrazione. Però l’Europa non è solo l’Unione e tanto meno la sola burocrazia bruxellese né l’accettazione senza riserve dell’egemonismo bottegaio-ordoliberista di Berlino. Si tratta di essere coscienti del fatto che la vera Europa – come spiegava il generale de Gaulle – non può non andare dall’Atlantico agli Urali. Naturalmente una cultura solida perché pragmatica sa che le istituzioni comunitarie sono una realtà complessa ma per larghi versi preziosa, man mano da trasformare, ma indispensabile per uno Stato come il nostro per affrontare le condizioni drammatiche di questo momento internazionale.

Matteo Renzi con la sua solita impostazione avventuristico-elettoralistica ha lanciato alcune sfide a Berlino  non accompagnate da serie riflessioni culturali. Però su questo terreno si tratta di procedere, imponendo alle spinte pur comprensibili di protesta un realistico approccio politico, aiutandole a fare i conti con la realtà. Forse varrebbe la pena di lanciare un centro studi su questa “nuova Europa” che, senza buttar via il frutto di generazioni di persone di grande spessore, va ampiamente ricostruita, probabilmente in senso confederale.

9) Non una colonia finaziaria. Secondo alcuni esagitati commentatori chiunque ponga il problema di decisivi spazi di autonomia finanziaria della nostra comunità nazionale, pur restando l’Italia “aperta”“come tutti gli altri mercati continentali, e ritenga che si debba tenere sotto controllo le manovre, legittime ma d’altro punto di vista invasive, di settori della finanza internazionale per approfittare della debolezza politica italiana, non sarebbe che un rinnovatore dei miti della finanza giudo-pluto-massonica. In realtà il problema italiano è se mantenere o meno elementi anche “finanziari” di sovranità nazionale come avviene per Francia e Germania, per Olanda e Spagna,, nonché naturalmente in Svizzera e in Inghilterra.

Dopo le barriere statalistiche della Prima repubblica (in parte fondamentale costruite da nittiani lasciati fare dal fascismo), nella torbida Seconda repubblica questo settore ha sperimentato alcune cure simili a quelle che il pasticcetto Boschi riservava alle nostre istituzioni, invece di calibrare provvedimenti di necessaria apertura al mercato e di risanamento di aree degradate, si è percorsa la via di soluzioni semplicistiche pensate astrattamente che hanno creato guasti di tutti i tipi, a iniziare dalla destrutturazione di Mediobanca, elemento centrale per un regia delle finanza nazionale. Il tutto è stato ben completato da un governo come quello Renzi che ha proseguito sulla linea dell’applicazione di principi astratti e lineari a una realtà molto complessa e concretamente determinata da una lunga storia, combinando il tutto con la specialità della cricca renzista di comportarsi da centrale affaristica. E’ possibile una controffensiva? Mi pare che vi sia del movimento nuovo che andrebbe organizzato culturalmente (anzi sono nate alcune iniziative che già vanno in questo senso).

10) Riformare la politica. La politica italiana 2016 è segnata dalla fine del postcomunismo: tra le tante malefatte del lupetto mannaro insidiato a Palazzo Chigi, questa è l’unica operazione utile veramente riuscita. I postcomunisti sono finiti: ci sono ancora massimalisti, estremisti, conservatori di sinistra ma la “Ditta” ha chiuso. L’antico “cervello” di questa area, Massimo D’Alema, ha dato un suo contributo più da intellettuale che da condottiero bolscevico nella campagna per il No. Il povero Pierluigi Bersani più che un duro da Botteghe Oscure sembra uno di quegli sfigati laburisti contro cui la sorte si ostinava (tipo Neil Kinnock). La fine della lunga fase post ’92 quando l’unilateralismo della magistratura ha condizionato strutturalmente la politica salvando quasi solo e attribuendo un seppur confuso ruolo agli eredi dell’ex Pci, coincide con un cambio epocale in tutta Europa: i partiti “rank and file” le strutture militari discese dai giacobini, riorganizzate da Kautsky (ma anche la disciplina laburista non scherzava) e codificate grazie alla Guerra civile europea per mano di Lenin e Stalin si stanno esaurendo non solo perché nel 1991 finisce la Guerra civile europea con la fine dell’Unione sovietica ma anche perché è finita una certa composizione di classe della società (la grande fabbrica) nonché si sono trasformate le forme di comunicazioni in modo più o meno intrecciato alle modificazioni sociali.

A formazioni alternative concentrate sulla difesa della proprietà o sulla lotta per la giustizia sociale, tendono a subentrare organizzazioni dalle motivazioni molto articolate. Tutto ciò favorisce un tipo di politica non più determinato da radicamento di classe, ideologia e organizzazione, bensì motivato dalla libertà flessibile con cui i cittadini divenuti centrali nella politica difendono i propri interessi. Verso questo orizzonte conteranno ancora quelle comunità di destino che sono i partiti ma per essere vitali dovranno essere fluide e partecipate come i modelli americani. Ed è indispensabile che a destra come a sinistra vi sia un legame tra le ali moderate e radicali degli schieramenti: solo se si tiene insieme tendenzialmente “tutti” (e non in pasticci consociativi ma in distinti ruoli di maggioranze e opposizioni in grado di esprimere un’alternativa), gli Stati saranno abbastanza forti perché l’inclusione in una politica “aperta” (cioè non trasformata in una logica di ceto autoreferenziale) è inclusione nella cittadinanza e ciò appunto fa forti le nazioni.

Si tratta di aprire ora una fase di riflessione su come dovrà essere questa nuova politica da noi. C’è un aspetto istituzionale: si tratta di separare i partiti dalle istituzioni e per farlo vanno affermati i diritti dell’opposizione alternativa (spazi parlamentari, finanziamenti e comunicazione tv secondo le regole inglesi) e non quelli dei vari “partiti”. Secondo: gli unici finanziamenti pubblici vanno dati a chi organizza primarie “regolate” democraticamente per scegliere i suoi candidati e i suoi programmi. Questi ultimi poi, man mano che la politica diventa dei cittadini e non delle nomenclature di partito, dovranno essere sempre più affidabili (che cosa si fa nei primi cento giorni, quale obiettivi si vogliono raggiungere in cinque anni) e non più prevalentemente propagandistici.