Altro che reazionaria, la sinistra di Arpaia è consumista

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Altro che reazionaria, la sinistra di Arpaia è consumista

08 Luglio 2007

Qual è stata dal 1994 fino a oggi – si chiede Bruno Arpaia in Per una sinistra reazionaria (Guanda, Parma, 2007) – l’idea guida della sinistra? L’idea di progresso, risponde. Si chiamavano infatti, non a caso, Progressisti coloro che discendevano dal PCI e che, rifiutando il socialismo reale, si collocavano in politica sul piano delle socialdemocrazie. Che cosa ha portato in questi anni l’idea di progresso all’ideologia e alla politica di sinistra?, si chiede ancora l’autore. L’idea di progresso ha reso la sinistra (che avrebbe dovuto immaginare un mondo radicalmente diverso da quello che esiste e trionfa) solidale con i valori del capitalismo, del mercato, dell’individualismo, delle liberaldemocrazie, risponde ancora l’autore: ha reso cioè la sinistra (una sinistra che si voleva al passo coi tempi, moderna, e spregiudicata) nient’altro che conservatrice. Conservatrice dello staus quo: di uno status quo magari reso migliore, più efficiente e meno iniquo, ma sempre abissalmente lontano dall’utopia egualitaria e senza classi dei maestri del pensiero socialista. Che cosa deve fare dunque una sinistra che voglia essere davvero alternativa?, si chiede infine l’autore.  Staccarsi radicalmente dall’idea di progresso e diventare reazionaria.

“Reazionario” in queste pagine è solo il termine che identifica l’auspicato abbandono dell’idea di progresso e non coincide affatto con ciò che nella storia del pensiero politico si intende con esso: quella corrente di pensiero che, in contrasto con gli ideali e la realtà della Rivoluzione francese, predicò l’unione fra religione e politica, il rifiuto dell’egualitarismo e dell’individualismo, della democrazia e dello scientismo. Di quella corrente, che storicamente ha avuto il suo nucleo forte in personaggi quali Chateubriand, De Bonald, Lamennais, De Maistre, Donoso Cortès, e che dopo quel periodo ha conosciuto ancora isolati esponenti per tutto il corso della storia fino a noi, Arpaia riprende non il complesso delle sue tipiche concezioni, ma solo alcuni temi, alcuni spunti: argomenti che sottolinea con forza sono quello della tradizione e quello della comunità. Mentre le idee sociali e politiche legate alla visione progressista concepiscono l’uomo come isolato dagli altri, atomo fra atomi, e tutto proiettato verso il futuro, l’idea di comunità unisce invece quest’uomo ai suoi simili (dai parenti ai colleghi fino ai compatrioti). Lo unisce ai suoi simili secondo affinità e legami consolidati dal tempo, e in più mette in relazione quest’uomo con le sue radici territoriali e culturali, lo tiene stretto al passato da cui proviene: ecco l’idea di tradizione.

Della corrente che nella storia del pensiero politico va sotto il nome di “reazionaria” l’autore non prende assolutamente in considerazione altri elementi, che pure la caratterizzano in senso forte: l’alleanza fra teologia e politica,  la concezione gerarchica della società, la visione fatalista della storia. Questi elementi, che quella ideologia politica implica tacitamente o predica a chiare lettere, e che la definiscono appunto come reazionaria invece che, ad esempio, conservatrice, non lo attraggono affatto, al punto che – pur intitolando questo testo alla sinistra reazionaria – non li cita neppure. Ma può davvero dirsi reazionaria un’ideologia politica che si limita ad aggiungere alle sue caratteristiche portanti, classicamente di sinistra, l’idea di tradizione e quella di comunità? O non è piuttosto, quello di Arpaia, il classico sasso lanciato nello stagno affinché le parole d’ordine oggi in voga a sinistra non vengano date per scontate?

Delle concezioni politiche guidate dall’idea di progresso è propria – secondo Arpaia – una visione ingenuamente ottimista della tecnica: in effetti, come pensare il progresso facendo a meno della tecnica? Una prospettiva reazionaria, invece, inviterebbe a diffidare della tecnica, dell’atteggiamento di dominio verso il mondo naturale che essa implica, delle catastrofi a cui ha dato e sempre più darà luogo. Osserviamo però che l’apologia della tecnica non è affatto tipica della sinistra: la si trova in dosi abbondanti presso tutti gli amici della modernità, di sinistra come di destra.

La posizione dell’autore si rivela così “reazionaria” solo per contrasto con quella “progressista”: potrebbe anche definirsi antimoderna o anticonformista o anche moralista, e sarebbe lo stesso. Concepisce la storia del pensiero politico come un supermercato nel quale ognuno, proprio come un cliente, può riempire il suo carrello con le merci che più gli piacciono: stasera avrei voglia di tradizione, ma l’ultima volta la gerarchia mi è rimasta sullo stomaco, e per l’alleanza fra trono e altare ho una vera allergia. Così, il nostro cliente intellettuale fa la sua spesa e porta alla cassa ciò che ha preso dagli scaffali: porzioni formato famiglia di egualitarismo, giustizia sociale, equità, dal reparto “reazione” solo alcuni pezzi scelti (l’autoritarismo con i figli e a scuola, la valorizzazione del passato) a scapito di altri (sessimo, razzismo e simili), ma soprattutto una grande resistenza ad acquistare nei reparti “democrazia”, “mercato”, “individuo”, “liberalismo”.

Che la sinistra non ami il mercato e preferisca lo Stato, non ami lo scambio e preferisca il dono, non ami l’individuo e preferisca la comunità, non ami la tecnologia e preferisca la natura selvaggia, è ancora comprensibile. Si definisce in tal modo non una sinistra “reazionaria”, come scrive Arpaia in modo provocatorio rivolgendosi all’altra sinistra, quella moderna e istituzionale, quella moderata e liberale, ma una ideologia che potrebbe essere chiamata antimoderna o radicale. E’ sorprendente però che questa ideologia, che si dichiara di sinistra, non ami affatto la democrazia, soprattutto se legata al liberalismo. Eppure è un dato che vale la pena di registrare: da qualche anno a questa parte, lo scetticismo di Tocqueville e di parte della grande riflessione politica contemporanea sulla democrazia come sistema politico ha fatto breccia anche a sinistra. Rivolgiamo in chiusura una domanda all’autore: che cosa sostituisce la democrazia?