Anche il Cav. promuoveva qualcosa di simile al “riformismo rivoluzionario”
03 Aprile 2012
Premesso che non ho alcuna intenzione di imbarcarmi in “tenzoni” sulla politica italiana, penso che la replica di Andrea Bellantone al mio articolo dell’1 aprile meriti senz’altro una risposta. In primo luogo perché chiarisce alcuni punti che nel suo primo scritto risultavano un po’ oscuri, in secondo luogo perché sposta leggermente il tiro. Il titolo recita “Mario Monti è l’ultima sciagurata epifania del riformismo progressista”. Tuttavia ora l’autore adotta una prospettiva più ampia, nella quale il Presidente del consiglio diventa, per l’appunto, una “epifania”.
Non a caso nel mio scritto precedente avevo citato Eric Voegelin e Sant’Agostino. L’intento non era certo quello di fare il “sapiente” che esibisce la sua cultura: non è il mio stile. Avevo però percepito – sia pure tra le righe – che quello di Bellantone è un discorso di filosofia della storia, e che inoltre Monti rappresentava solo il pretesto per introdurre idee più ampie.
A suo avviso l’Italia – e l’intera Europa – è dominata da una “forma di progressismo rivoluzionario”. Si parla di un clima di “turbo-riformismo politico, sociale e antropologico”, destinato a generare fallimenti la cui evidenza non può essere negata. Questo perché i sistemi occidentali si sono visti calare sulla testa, a partire dal 1989, trasformazioni troppo rapide.
Ciò vale soprattutto per il nostro Paese. Le anzidette trasformazioni avrebbero messo in crisi il sistema-Italia tanto da imporre la soluzione del governo tecnico che, con ricette indigeribili, cerca di salvare il salvabile. Ma non si tratta solo di questo. Nel caso particolare dell’Italia – e immagino in riferimento ad altri Stati europei – le risposte attese risultano “del tutto smisurate rispetto alla nostra struttura nazionale e ai bisogni profondi del nostro Paese”.
Si tratta di capire quali siano tali bisogni profondi e per quale motivo si chiedano delle risposte che la nostra struttura nazionale non è in grado di fornire. Viene riconosciuto nell’articolo che modernizzazione e globalizzazione sono processi inevitabili in questa fase storica. Si può giudicarli negativamente ma questo non sposta i termini della questione. Come può darsi che la globalizzazione prima o poi si arresti: il futuro, a dispetto di quanto affermano alcuni filosofi, non è prevedibile.
Adottando una prospettiva di stampo conservatore si può dire con Bellantone che “rispetto a questo processo le sinistre e le destre europee hanno preso scelte rigorosamente parallele: le sinistre hanno abbandonato totalmente il loro radicamento sociale, le destre hanno perso il loro radicamento nella tradizione”. L’analisi non è nuova e appare corretta. Resta pur sempre il problema di capire che cosa si dovrebbe fare per invertire la tendenza, altrimenti il discorso rimane sul piano puramente accademico. E nulla di male in questo: allo studioso spetta analizzare, non fornire risposte.
Mi è tuttavia difficile capire per quale motivo si ricorre all’espressione “progressismo rivoluzionario”. La globalizzazione in molti casi è diventata una bandiera delle destre, con le sinistre in posizione di critica aperta. E in tanti Paesi viene ancora vista come un rinnovato tentativo dell’Occidente di dominare il mondo. Una nuova forma di colonialismo, insomma.
Anche per quanto riguarda le tradizioni nulla di nuovo sotto il sole. Il loro sradicamento è percepito come un sopruso non solo in Italia, ma nella maggioranza dei Paesi europei. Non si dimentichi che è cambiata negli ultimi decenni la struttura sociale in ognuno di questi Paesi. E, nel caso delle sinistre, occorre rammentare che termini un tempo comuni come “classe” hanno perduto il loro significato, di qui la perdita del radicamento sociale.
L’Italia ovviamente non fa eccezione, né vale appellarsi ai tanti maestri che possiamo con orgoglio vantare in ogni campo del sapere umano. Ognuna delle grandi nazioni europee può schierare maestri a volontà. Eppure, in alcuni casi, le risposte da esse fornite sono state più pronte e incisive o, se vogliamo, meno nostalgiche. A mio parere affermare che l’Italia non è in grado di affrontare la sfida significa autolimitarci e dare per scontato di essere – per usare il gergo calcistico – un Paese di serie B.
Non pretendo con questo di aver esaurito la complessità dell’argomento. Desidero solo ribadire che un’Italia isolata mi preoccupa, visto il contesto – che è poi quello occidentale – nel quale volenti o nolenti siamo inseriti. Se si deve proprio parlare di “riformismo rivoluzionario”, mette infine conto notare che nell’accezione qui usata qualcosa di simile veniva propugnato dallo stesso governo Berlusconi.