Anche Loris Campetti ha (le sue) ragioni

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Anche Loris Campetti ha (le sue) ragioni

02 Gennaio 2012

Giorni fa ho ascoltato su RadioTre la trasmissione ‘Prima Pagina’ condotta da Loris Campetti, redattore del ‘Manifesto (‘quotidiano comunista’). Il giornalista mi ha ricordato quegli ‘anni formidabili’ quando poteva capitare, in una seduta di laurea, che lo studente si vedesse criticato dal relatore per aver trattato la commedia inglese del Settecento in un’ottica non marxista.

Campetti, infatti, non esprimeva (legittimamente) il suo punto di vista sui  politici e sui fatti del giorno rispondendo alle domande degli ascoltatori ma già, leggendo i titoli dei giornali, ci teneva a mettere i (suoi) puntini sulle «i». Se, ad esempio, il quotidiano della Lega a titoli cubitali recava la notizia che il governo stava mettendo le mani nelle tasche dei lavoratori, il commentatore non si risparmiava espressioni come «con che faccia, loro che stavano al governo con Berlusconi!!». Insomma, per il ‘Manifesto’, sembra non essere ancora arrivata l’era della «due campane» ovvero il dovere di riportare accuratamente le opinioni degli avversari politici e ribatterle, sì, ma solo in un secondo tempo. Sentendo Campetti, mi chiedevo per quali ragioni il suo giornale, a corto di un sufficiente numero lettori, dovesse ricevere dallo Stato un contributo di qualche miliardo delle vecchie lire e perché una quota, sia pure infinitesimale, delle imposte che sono tenuto a versare dovesse andare a un foglio di cui non condivido né le idee, né lo stile, né, tanto meno, l’aggressiva prosopopea ideologica.

E’ il problema che, recentemente, ha sollevato, senza peli sulla lingua, Massimo Teodori, conduttore a sua volta di ‘Prima Pagina’ in quanto collaboratore del ‘Sole 24 Ore’—il quotidiano confindustriale che aveva visto l’esordio di Gianni Riotta alla sua direzione con un paginone in cui venivano esaltati Valentino Parlato e…’Il Manifesto’. Teodori, appassionato cultore di Ernesto Rossi e nostalgico del Partito d’Azione, ha fatto rilevare correttamente che non si può andare avanti così, con tutti questi giornali  che nessuno legge e che pesano sulle casse dello Stato, causando un’irritazione tanto più forte quanto più si tratta di fogli «di parte». Solo in Italia, in effetti, può capitare che, con le tasse che paga, l’ateo sia costretto a sostenere un quotidiano cattolico e un conservatore un «quotidiano comunista».

E tuttavia il problema non è così semplice giacché, a ben riflettere, quei contributi statali, lungi dall’essere la riprova del disordine, del clientelismo, dell’arrembaggio alle casse pubbliche da parte di associazioni e di partiti – come vorrebbero Gian Antonio Stella e gli altri fustigatori della casta -, rientrano in una filosofia politica che, nel nostro paese, è diventata, si potrebbe dire quasi da un secolo, di ‘senso comune’ e che solo adesso, forse, sta vacillando sotto i colpi della crisi. E’ la logica della ‘terza via’ sottesa non solo all’azionismo ma anche a tutte le dottrine politiche – a cominciare dalle ‘dottrine sociali della Chiesa – che hanno fatto della critica del conservatorismo e dell’individualismo liberale il loro cavallo di battaglia.

In riferimento al tema in questione, mi sembra non poco significativo quanto scriveva Guido Calogero in un saggio del 1943 riproposto ora, per la sua attualità, dal ‘Corriere della Sera’, Le regole della democrazia e le ragioni del socialismo. Ho scelto Calogero per non avvalermi di un esempio ‘facile’. Il filosofo, tra l’altro una persona amabilissima e uno dei massimi studiosi italiani di filosofia greca, è stato un autentico maestro di saggezza, come attestano le pagine di Quaderno laico, la rubrica da lui tenuta sul ‘Mondo’ di Mario Pannunzio: grazie a lui intere generazioni di allievi hanno scoperto il valore della libertà, il dovere del rispetto dell’altro, la profonda eticità del dialogo. Calogero, tuttavia, riteneva che giustizia e libertà, lungi dall’essere ideali (talora, almeno) inconciliabili, per loro natura si richiamassero e si rafforzassero l’un l’altro. E proprio il piano della libertà e della possibilità concreta di comunicare ad altri le proprie idee veniva addotto a riprova della giustezza della sintesi liberalsocialista (l’ircocervo, come causticamente l’aveva definita Benedetto Croce).

Credo che valga la pena  rileggere le osservazioni che il filosofo romano faceva al riguardo, scusandomi per la citazione un po’ lunga:

«Si garantisce, con la costituzione, la libertà di parola e la libertà di parola e di voto, la libertà di associazione, di stampa, di propaganda, tutti strumenti che mirano ad assicurare ad ognuno la facoltà di far prevalere le proprie idee, qualora riescano ad ottenere il consenso degli altri. Ma queste possibilità di azione, sono poi eguali in ogni caso? Per diffondere le proprie idee, bisogna anzitutto averne il tempo: il tempo di conversare, e quello di riflettere sui colloqui, di rielaborare i propri argomenti in modo da renderli più persuasivi, da adattarli agli ambienti in cui sono chiamati a operare, di arricchirli della necessaria documentazione tecnica e storica. E parlare non basta, perché la voce umana è molto fioca, quando dovunque sono gli altoparlanti della stampa e della radio. Occorrono libri, giornali; ci vogliono i mezzi della tecnica moderna, se si vuole veramente conferire alle proprie idee la possibilità di essere apprezzate e accolte, di non restare obliate, o confinate in piccola cerchia, in un mondo in cui le idee opposte hanno tali mezzi di diffusione. Bisogna unirsi con altri uomini, organizzare associazioni e partiti, per svolgere e moltiplicare l’opera della propaganda. Ed ecco che i mezzi a disposizione possono essere molto diversi, a seconda delle diverse situazioni individuali. / Perché non occorre solo il tempo, occorre anche il denaro. Non solo quel tempo che è già denaro, specie per l’uomo della strada, il quale deve bene esser tutelato nella possibilità di far valere la sua opinione (anzi, prima di tutto, nella possibilità di farsi un’opinione, se non si vuole lasciarlo nella servitù dell’ignoranza), e il quale tuttavia non può rinunciare al suo salario per dedicarsi alla discussione e alla propaganda politica. Occorrono anche assai più vaste disponibilità finanziarie: tanto più vaste, quanto più complicata si fa la tecnica moderna, e più potenti e costosi i mezzi di diffusione delle  idee. Chi è più ricco, in tal modo, ha più capacità di aver ragione. È come colui che può pagarsi una schiera di principi del foro, mentre il suo avversario non dispone neppure di un difensore d’ufficio. Caio proprietario di un giornale può influenzare l’opinione pubblica infinitamente più di Tizio che non dispone di quel mezzo. E i governi hanno ormai compreso l’utilità di avere in mano la radio, per avere così in mano anche l’animo della folla».

Se il liberalsocialismo viene ‘preso sul serio’, se la critica alla «libertà da», ovvero alla libertà che permette di fare qualcosa ma non ne fornisce i mezzi, è sempre valida, come si possono negare i contributi pubblici al ‘Manifesto’o a giornali di opposta area culturale ma egualmente incapaci di ‘farcela da soli’? Se non sarà lo stato a provvedere, l’operaio, l’insegnante elementare, l’impiegato postale, lo studente universitario che hanno le stesse idee di Loris Campetti si troveranno privi di un organo di informazione e di quel minimo di gratificazione simbolica che proviene dal «ritrovarsi» uniti e solidali in una comunità di lettori che la pensano allo stesso modo.

Insomma il problema esiste: se la critica calogeriana e azionista del mercato regge, i governi, che «hanno ormai compreso l’utilità di avere in mano la radio», anche per i media cartacei, debbono garantire la «libertà di» ovvero debbono mettere tutti in condizione di far conoscere le proprie opinioni, soprattutto se sono le opinioni di quanti non  hanno i conti in banca delle famiglie Agnelli e Berlusconi. Degli «strumenti di produzione» delle informazioni e delle conoscenze dev’essere proprietaria la collettività, come accadeva nella Russia Sovietica, a quel che si leggeva in un noto manuale di diritto pubblico scritto a quattro mani da due giuristi di area socialista e democratica, che facevano rilevare come nell’URSS la libertà di stampa non rimanesse teorica dal momento che giornali ed editoria erano di tutti.

A un radioascoltatore che, provocatoriamente, gli chiedeva perché mai tutti i cittadini, anche di diverso orientamento politico, dovessero contribuire a tenere in vita ‘Il Manifesto’, Loris Campetti rispondeva (e, dal suo punto di vista, a ragione) che la domanda era ispirata  al «liberismo selvaggio» diffuso nel nostro paese. Forse è venuto il tempo di ridiscutere seriamente i ‘principi’ posti a fondamento della convivenza civile e, soprattutto, di ‘realizzare’ che la critica del ‘liberismo selvaggio’ – ovvero del «liberalismo in economica» giacché di questo poi si tratta – non può essere, come ammoniva Max Weber parlando dei ‘valori’, un autobus su cui sia lecito salire e da cui sia lecito scendere a piacere. Almeno al livello intellettuale, il dovere che incombe allo studioso, allo storico, al giornalista, prima ancora della lotta alla casta e alla corruzione, è il dovere di scrollarsi di dosso l’irresponsabile superficialità di chi, senza salde convinzioni etiche, rimane altresì estraneo all’«etica della responsabilità» che valuta l’agire sulla base delle sue conseguenze.

PS—Non vorrei che, leggendo le parole di Calogero, mi si venisse a dire che bisogna ricordare il «contesto», in cui vennero scritte. Chi ha davvero il senso della storia, sa bene che un conto è la storicità, un conto è lo storicismo. Quest’ultimo, in Italia, è spesso il ‘vizietto’ dei cattolici tradizionalisti e dei marxisti di ogni specie: a forza di riportare i documenti teorici al loro «contesto» – all’epoca, agli uomini, agli eventi, allo stato della cultura, alle concezioni del mondo dominanti – si finisce per giustificare tutto: Torquemada e il ‘Sillabo’, il giacobinismo e lo stalinismo. Col risultato paradossale di ritenere che aver avuto torto in un certo periodo significa aver avuto più ragione di chi aveva visto giusto ma stava dalla parte sbagliata. (ricordiamo tutti: «meglio aver torto con Sartre che ragione con Aron»!).

Molti anni fa, per mostrare la modernità e il realismo di Calogero, scrissi che, a differenza di molti azionisti, Calogero non pensava che dopo la caduta del fascismo si sarebbe dovuto costituire una sorta di Partito (unico) del Congresso ma si sarebbe dovuta ripristinare la democrazia liberale fondata sulla dialettica dei partiti (conservatori e progressisti): a differenza di Duccio Galimberti, che avrebbe voluto mettere al bando i partiti e reclutare i membri del Parlamento su base corporativa. A un collega, che mi fece osservare che, ricordando il (generoso?) errore commesso dal grande e valoroso resistente di Cuneo, non prendevo in considerazione le idee del tempo, la temperie della guerra civile, il confronto col fascismo sociale, obiettai che lui, a sua volta, non rendeva giustizia a Calogero che, nonostante quelle belle o brutte cose da ‘prendere in considerazione’, ragionava come un democratico anglosassone, a dimostrazione del fatto che anche durante il regime si potevano fare buone letture, soprattutto se si faceva parte della superiore ‘classe intellettuale’.