Anche Pisacane sognava un’Italia che non si è realizzata

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Anche Pisacane sognava un’Italia che non si è realizzata

26 Giugno 2011

Nel panorama del Risorgimento italiano Carlo Pisacane rappresenta una specie di isola in mare aperto. Un cavaliere errante, una scheggia impazzita, uno di quei “folli” che – a sentire Oscar Wilde – fanno il mondo perché i saggi ci vivano. Una figura controversa, insomma, a tratti indecifrabile, che ha scatenato supposizione, generose congetture e maligne illazioni: messia inascoltato della causa italiana, paladino del popolo, voce clamante nel deserto, incorreggibile libertino.

Tutto vero e tutto falso, in parti eguali: di Pisacane, in realtà, si fa prima a dire che cosa non fosse. Grande eretico della famiglia mazziniana, di Mazzini aveva preso, se non il credo, l’ostinazione: la tragica, epica vocazione al martirio. Non amava Garibaldi e non ne aveva l’esperienza militare, le sette vite, la sfacciata buona sorte che arride agli uomini scelti dal destino. Predicava il socialismo, ma anche sulla natura di questo socialismo bisogna intendersi.

Non era il socialismo di Marx (che con Pisacane condivise l’esilio a Londra, senza peraltro mai incontrarlo), piuttosto somigliava al populismo di Herzen. Proclamava, come una specie di parola d’ordine, “libertà e associazione” e annunciava come indispensabile una profonda rivoluzione sociale. “La libertà”, scriveva Pisacane nel saggio La rivoluzione, “è un’aspirazione naturale” che si ottiene “attraverso una serie di fatti terribili e sanguinosi”; essa, per essere completa, ha bisogno di nazionalità e uguaglianza (economica oltre che politica). Sulla strada della libertà “l’Italia deve fare da sola”; il popolo svegliato, guidato dai “riformatori”, deve insorgere contro lo straniero e insieme contro “l’imbelle schiera d’oppressori” (nobili, ricchi e preti) che lo sfruttano.

La libertà del popolo passa necessariamente attraverso l’abolizione del diritto di proprietà, che non riguarda ”il frutto sacro e inviolabile dei propri lavori” ma “ la facoltà concessa a pochi di arricchirsi a discapito di molti ,“ il privilegio del proprietario e del capitalista “di godersi, oziando, il frutto dei lavori del contadino e dell’operaio”. Una volta libero, Pisacane ne era convinto, il popolo non vorrà accettare “come stupido gregge” la monarchia costituzionale, non dovrà delegare a nessuno la propria sovranità, costruirà uno Stato fondato su principi del seguente tenore: “le leggi non possono imporsi ma proporsi alla nazione”; “i mandatari sono sempre revocabili dai mandanti”; “ogni funzionario non potrà che essere eletto dal popolo e sarà sempre dal popolo revocabile”; “la sentenza del popolo è superiore a ogni legge, a ogni maestrato”.Una repubblica sociale che vuole garantire a ognuno la “libertà assoluta e concreta”, un modello di socialismo sui generis che non dissolve l’individuo nella società ma al contrario mette la società al servizio dell’individuo, i mezzi di tutti a disposizione di ciascuno in un’ottica di “pari opportunità”.

Iscritto all’Accademia militare della Nunziatella insieme al fratello, deviò dal suo percorso naturale sulla scia delle idee rivoluzionarie. Studente svogliato ma brillante nelle discipline tecniche e nella pratica dell’arte militare, ormai avviato a una promettente carriera di ufficiale, restò invischiato in una poco edificante storia di corna. Per amore di Enrichetta Di Lorenzo, amica d’infanzia e sposa di un cafone arricchito della borghesia napoletana, si prese le pugnalate di un sicario inviato dal marito geloso e ancora convalescente fu espulso da Napoli e braccato dalle polizie di mezza Italia per volontà espressa di sua maestà Ferdinando II. Si rifugiò a Londra e poi a Parigi, passando dalla freddezza dei fuoriusciti italiani, che lo sospettavano di spionaggio, all’angustia delle galere francesi. Cercò gloria con la Legione Straniera in Algeria, poi a Milano a fianco di Cattaneo nel 1848 e infine a Roma, in difesa della repubblica, l’anno successivo. Qui in poco tempo consacrò la sua reputazione di attaccabrighe,condottiero brillante ma spigoloso, litigando con tutto lo stato maggiore repubblicano. Mazzini, il ministro della guerra Avezzana, il “rivale” Garibaldi. Fino a restare isolato e bandito, inviso ai moderati e mal tollerato dai mazziniani. Estremo, troppo estremo, anche per gli “estremisti”.

In realtà il progetto politico di Pisacane era tanto suggestivo quanto, nella sua parte essenziale, prematuro. Un sogno con dentro un altro sogno ancora: liberare con le armi il Regno delle Due Sicilie e consegnarlo a un’Italia indipendente e repubblicana, e contemporaneamente stabilire un “nuovo ordine” fondato sull’equità e la giustizia sociale. Quanto ai metodi di lotta, poi, Pisacane detestava la guerriglia preferendo, per educazione militare ed esperienza, lo scontro in campo aperto. Fu aspramente critico sul modo in cui Garibaldi condusse la difesa della Repubblica Romana: la scelta di aspettare i francesi nella Città Eterna e combattere strada per strada piuttosto che uscire in armi nell’agro romano e tentare il tutto per tutto in una battaglia campale. Odiava la guerriglia, insomma, la considerava un’arte bellica minore, e forse anche vile, ai confini del terrorismo. Eppure – ironia della sorte – di guerriglia finì per morire, al culmine di un’avventura disperata, mal concepita e mal preparata, che doveva consacrarlo come eroe romantico per eccellenza del Risorgimento.

“L’Italia trionferà quando il contadino cambierà volontariamente la marra col fucile”, aveva scritto; e in questa scommessa investì tutto il suo credito di uomo politico e condottiero. Sbarcò a Sapri la sera del 28 giugno 1857 alla testa di trecento volontari (molti dei quali “prelevati” dalla prigione di Ponza), convinto di trovare nel Cilento dei “tristi” abbastanza combustibile di rivolta. E invece trovò finestre chiuse e porte sbarrate, popolazioni ostili rinserrate nelle chiese, notabili alleati col tiranno. Vagò quattro giorni in una penosa, frenetica peregrinazione tra i paesi dell’interno fino all’appuntamento inesorabile col destino. Il 2 Luglio a Padula l’esercito borbonico calato da Napoli disperse senza sforzo i rivoltosi. Pisacane cercò rifugio nelle campagne circostanti ma finì ucciso nel vallone di Sanza , da un colpo di fucile di una guardia urbana o dalla roncola di un ingrato contadino “sanfedista”. Così in modo anonimo e quasi banale, calò il sipario su un impresa troppo piccola per il sogno del suo protagonista. E sarebbe calato, di lì a poco, anche l’oblio, se un giovane poeta Marchigiano, Luigi Mercantini, non si fosse ingegnato a tramandarne il ricordo.

La sua Spigolatrice di Sapri, romantica celebrazione della vicenda, entrò per direttissima nell’armamentario retorico risorgimentale, dando lustro al luogo e all’impresa, e ovviamente al suo condottiero. Pisacane fu iscritto nella schiera degli eroi sfortunati, i martiri gloriosi della lotta per l’unità. Non più di un simbolo, un’essenza incorporea.

La spedizione dei trecento non lasciò tracce tangibili nel Cilento e nel regno borbonico. Sguardi benevoli vi lessero un’anticipazione dell’impresa dei mille; altri, più maliziosi, ne fecero l’esempio del fallimento di un’intera linea politica. Neanche da morto la fortuna arrise a Pisacane: i suoi saggi politici non ebbero il successo che meritavano; l’eredità dell’eroe napoletano, gelosamente custodita dalla compagna Enrichetta, venne di fatto ignorata dai protagonisti della vita nazionale dopo l’unità.

Eppure Carlo Pisacane fu un pensatore di livello europeo, forse perfino “la mente più avanzata dell’Ottocento italiano”, secondo la definizione di Giovanni Spadolini. Il suo “socialismo volontaristico”, basato sull’iniziativa consapevole e l’educazione alla responsabilità delle masse piuttosto che sul cieco determinismo della storia, suscitò l’interesse di Lenin. Il suo “socialismo del popolo” (antitesi del socialismo classista di Marx) metteva il dito nella piaga più dolorosa del Risorgimento: l’assenza di una guerra di popolo, l’emarginazione delle masse dalla vita collettiva, il taglio elitario della lotta per l’indipendenza.

Pisacane aveva scoperto e rimarcava la dimensione sociale del Risorgimento. Non un semplice accessorio, ma l’autentico motore di un processo unitario forte e condiviso. “Chi può affermare che le sorti del contadino e del popolo, quando si verificheranno i propositi dei nostri patrioti, subiranno un tale cambiamento da meritare le pene e i sacrifici necessari? Il socialismo, o, se vogliamo usare un’altra parola, una completa riforma degli ordini sociali, è l’unico mezzo che potrà sospingere il contadino a combattere”. Si tratta, nei termini di un pensatore dell’Ottocento, di un chiaro riferimento al tema della coesione sociale come nerbo e garanzia dell’unità nazionale. Ed è insieme un richiamo a evitare il rischio più insidioso per una nazione: lo scollamento tra il “Paese reale” e il “Paese legale”, tra la comunità e le sue istituzioni.

Una frattura che ha purtroppo segnato tutta la storia d’Italia, dai tempi della “piemontizzazione” a quelli più recenti della crisi della Prima Repubblica; una ferita che il sacrificio della Grande Guerra, la catarsi della Resistenza e, da ultimo, la grande coalizione delle forze costituzionali contro l’emergenza del terrorismo e della criminalità organizzata sono riuscite solo in parte a rimarginare. Nella lucida visione di una società fondata sulla giustizia e l’inclusione, sulla coscienza civile e la partecipazione responsabile dei cittadini, risiede probabilmente il contributo più duraturo di Pisacane alla causa nazionale. La sfida che il suo intuito politico e il suo generoso sacrificio trasmettono all’Italia del futuro.