Apologo (amaro) di inizio anno sui mali dell’Università italiana
05 Gennaio 2011
In una ridente cittadina sul mare, un tempo capitale dell’olio e del vino di qualità, a qualcuno viene in mente di creare una Università degli Studi con varie facoltà, per il momento come sede staccata di un più grande Ateneo, collocato a un centinaio di chilometri di distanza, in seguito come istituzione indipendente, autonoma e sovrana. "In Italia — ha scritto Giuseppe Bedeschi sul ‘Corriere della Sera’ del 31 dicembre u.s., La svolta è liberare l’università dalla logica del ‘pezzo di carta’— ce ne sono 95 perché, sotto la spinta partitico-sindacal-corporativa, si è costruita una università accanto ad ogni campanile". "Una in più, una in meno" sostengono gli uomini di quel "qualcuno", sparsi in vari partiti e appartenenti alle più diverse professioni, non ha nulla di scandaloso e quella proposta, in particolare, rappresenta la rivincita di una città tenuta sempre dai politici nazionali "ai margini dell’impero".
Mentre si cerca, nei consigli comunale e provinciale, di precostituirsi una maggioranza favorevole al progetto, il nostro "qualcuno", che ha nel suo DNA un forte patriottismo locale, compra a prezzi stracciati un’intera collina destinata agli ulivi e alle viti e, in quanto terreno agricolo, priva del diritto di edificabilità. Inutile dire che il detto terreno, quando si decide di impiantare il nuovo Ateneo, viene prescelto come l’unica zona cittadina atta ad ospitarlo ed è del tutto superfluo aggiungere che l’acquirente, rimossi i vincoli di edificabilità, diventa miliardario, vendendo la collina al ‘Polo universitario’.
In Italia, non si ‘fanno i soldi’per aver lanciato sul mercato prodotti ‘votati’ dai consumatori in virtù di qualità specifiche che rinviano alle capacità imprenditoriali, al coraggio dell’innovazione, agli investimenti scientifici e tecnologici di un’azienda, ai capitali sborsati dai privati, ma ci si arricchisce grazie all’influenza esercitata su quanti operano nella ‘sfera pubblica’, al monitoraggio dei piani regolatori, ai buoni rapporti intrattenuti con le Procure, cogli uffici tributari, con i grossi studi legali e notarili, con le Questure, con le redazioni dei giornali, le curie vescovili, le polisportive etc.
Istituita la nuova Università in una regione senza alcuna particolare vocazione accademica, il va sans dire che non solo i palazzinari incaricati di edificare le sedi delle prime Facoltà ma tutta l’amministrazione — dal direttore ai bidelli — vengono reclutati nel giro clientelare del fondatore, al quale si associa ben presto il più influente notabile democristiano, già avversario politico di ‘Forza Italia’ ma in seguito — dopo la sua conversione al ‘mercato’(sic!), al liberalismo, alle virtù della concorrenza — divenuto l’esponente di maggiore spicco dell’area moderata subregionale. Tutta l’operazione costa agli enti locali milioni di euro ma la soddisfazione è, per così dire, bipartisan.
Le mamme degli studenti universitari gongolano di gioia perché, finalmente, i figli possono frequentare le elezioni sotto casa, senza essere costretti a trasferirsi in città e ad affittare appartamenti o camere che non vengono certo messi a disposizione gratuitamente. Quanti non hanno prole a cui pensare sono inorgogliti per l’importanza acquisita dalla loro città, non più soltanto rinomata località balneare o centro di produzione di oli, di paste, di vini pregiati ma ora avviata sulla strada degli ‘hautes études’ e sicuramente destinata a ospitare convegni internazionali, conferenze dell’Unesco, riviste e case editrici.
L’affare, però, si rivela non meno ghiotto per i docenti dell’Università-Madre. Esso significa, infatti, la moltiplicazione delle cattedre, dei posti di ricercatore, delle borse di studio. Si tratta di un ‘gruppo di pressione’ schierato a sinistra e che, al solo sentir parlare di Berlusconi, si fa venire l’itterizia. Dal capoluogo di regione, sede di un’antica Università, i pendolari della cattedra, si riversano sulla costa (non di rado a fine settimana e con la famiglia) dove sono generosamente ospitati e ringraziati per il sapere che vengono a impartire ai poveri provinciali tagliati fuori della grandi correnti di comunicazione delle scienze, delle arti, del diritto, dell’economia. Per alcuni di loro, l’accennata moltiplicazione dei pani e dei pesci è servita anche per compensare i commissari che li avevano messi in cattedra, accogliendone gli allievi che non avevano potuto ‘piazzare’nei loro vecchi atenei.
In tal modo, si è rinnovato, su scala ridotta, un copione antico: alla destra, gli ‘affari’(ai bei tempi, l’Iri, le banche gli enti parastatali), alla sinistra, la cultura ( ai bei tempi ma anche oggi i giornali, le case editrici, il cinema, il teatro). Tra i professori della neonata Università non c’è quasi nessuno che legga il ‘Corriere della Sera’ — avere sottobraccio il ‘Giornale’ o ‘Il Foglio’ verrebbe considerata un’intollerabile provocazione. I periodici più diffusi sono ‘Repubblica’ e ‘Il Fatto quotidiano’. Si tratti di antropologia culturale o di politica dei trasporti sui discenti piovono lezioni di antiberlusconologia, denunce del mercatismo, visioni apocalittiche di un pianeta che la globalizzazione mette a rischio, apologie del multiculturalismo e condanne del razzismo leghista. Nei luoghi in cui si maneggiano i fondi per mantenere insieme questo apparato scenico — dalle amministrazioni locali alle banche amiche — le opinioni politiche cambiano radicalmente: qui la destra domina sovrana e non si muove foglia che il nostro "qualcuno" non voglia.
Del fatto che la ‘cultura’ egemone, nelle aule universitarie, sia pregiudizialmente antigovernativa, antiliberale, antioccidentale, a quanti tengono le mani sui cordoni della borsa non gliene potrebbe fregare meno. D’altra parte, molti di loro —provenendo dalla DC e dal PSI— si sono formati a scuole di pensiero abituate a mettere sullo stesso piano i mali del capitalismo e quelli del collettivismo e a prefigurare sintesi ‘ardite’ispirate al trinomio libertà/eguaglianza/fraternità o alle dottrine sociali della Chiesa. Che il mercato vero — quello che presta servizi utili (anche scolastici) facendoli pagare cari — non abbia messo radici, né a livello intellettuale né in pratica, nella loro città è motivo, anzi, di intima soddisfazione. Da noi la ‘terza via’, il welfarismo, l’economia sociale di mercato, la solidarietà sono mere espressioni ideologiche, nel genuino senso marxiano: rappresentano le razionalizzazioni o, meglio, la ‘buona coscienza’ di imprenditori (!) privati, che fanno affari con gli enti pubblici, che non debbono temere alcuna concorrenza, che non debbono rimetterci del loro e che sono particolarmente abili nel trovare terreni di intesa con i sindacati sulla base di un pactum sceleris che garantisce profitti e salari… scaricando tutto sui contribuenti (e, in primis, sul ceto medio).
"Almeno, ci si chiede, il nuovo Ateneo è frequentato da un buon numero di iscritti?". Le cifre inducono a rispondere negativamente. Si pensi solo al caso di un corso di laurea specialistico (la cosiddetta biennale) che ha quattro iscritti e quattordici docenti. E’ un caso limite, d’accordo, ma anche tenendo conto di tutti gli iscritti degli altri corsi di laurea, qualora si chiudessero i battenti del Tempio del Sapere e gli studenti venissero ospitati nella città della sede madre a spese dei rispettivi enti locali, questi ultimi spenderebbero probabilmente meno della metà di quanto non spendono oggi.
Per i notabili sarebbe una perdita relativa: un po’ di personale amministrativo, dagli uscieri in su, dovrebbe trovarsi un altro lavoro ma lo smantellamento delle strutture universitarie potrebbe prefigurare altri affari e altre ancora più lucrose speculazioni. Per la sinistra, invece, sarebbe la catastrofe e ciò spiega perché in qualche facoltà ci sia stata una levata di scudi contro la logica ‘aziendalistica’ del decreto Gelmini, accusato di consegnare l’Università italiana ai privati, di abbassare il livello degli studi, di umiliare la ricerca scientifica. Per il Rettore e il Senato accademico aver prefigurato un ragionevole ridimensionamento di corsi, di sedi staccate, di dipartimenti, di cattedre, comporta il rischio di venir messi alla gogna, soprattutto mediatica! La libertà della ricerca, la tradizione umanistica, Dante e De Sanctis, Omero e Cicerone, le Pandette e la teoria rawlsiana della giustizia: nessun richiamo alato ai ‘valori alti’ è stato risparmiato per difendere gli interessi corporativi di un ceto che si è dato la missione di ‘coltivare gli studi’ contro la decadenza morale e intellettuale del nostro tempo.
Il furore e la denuncia, comunque, sono ‘giustificati’ giacché se finisce la festa, il socio, per così dire, "oggettivo", rappresentato dalla destra, come s’è detto, non perde nulla mentre quello rappresentato dalla sinistra sarebbe costretto a far le valigie. A riconferma della tesi — sostenuta nel saggio di Giovanni Cofrancesco e Fabrizio Borasi, Il sistema corporativo. Diritti e interessi a geometria variabile con Prefazione di Piero Ostellino (Ed. Giappichelli 2010) — che, nel nostro paese, il ‘compromesso corporativo’ si regge solo se i portafogli degli enti pubblici sono pieni (anche di soldi a prestito) ovvero se il sistema fiscale, da noi inteso come una sorta di Robin Hood che toglie agli uni (ma non soltanto ai ricchi) per distribuire agli altri (ma non soltanto ai poveri), può contare su risorse sufficienti.
E qui viene al pettine il nodo cruciale costituito da una intellighenzia che in Italia è fatta, al 99,9 %, di ‘chierici traditori’. Estinta la razza dei Vilfredo Pareto e dei Panfilo Gentile, gli intellettuali servono ormai solo a mascherare i conflitti reali e le effettive poste in gioco delle lotte sociali. Un contratto fatto avere, su raccomandazione di Bondi, a una persona vicina al ministro scatena un diluvio di commenti sulla fine dello ‘stato di diritto’, sul clientelismo berlusconiano, sulla corruzione della classe politica, sulla differenza di quella odierna rispetto a quella democristiana che "mangiava, sì, ma sapeva stare a tavola!". Tristi figuri che ricordano, anche nel fisico, i gorilla delle polizie centro e sudamericane si fanno i vessilliferi dell’’Italia dei valori’. Le attività erotiche di un presidente del Consiglio (peraltro privo di ‘classe’ e di senso della misura) diventano un’occasione per una geremiade sulla decadenza irrimediabile dei costumi e, intanto, a destra e a sinistra , ogni ‘categoria’ continua, imperterrita, a occuparsi dei propri affari, timorosa soltanto del ‘mercato’selvaggio e ‘senza regole’, dell’individualismo possessivo, dell’abbandono dei poveri al loro destino.
L’ideale di tutti sembra essere quello di provvedere al benessere di ‘chi sta peggio’ allestendo strutture pubbliche o semipubbliche che facciano guadagnare i’capitalisti’, procurino posti di lavoro ai prestatori d’opera (un elettorato di sinistra corroso, però, dalla Lega e da altri movimenti populisti), beneficino una parte — solo una parte: non si può accontentare tutti — della ‘plebe’, che poi sa per chi votare. E’ superfluo aggiungere che le esigenze reali , i bisogni dei consumatori non vengono tenuti nella minima considerazione: le masse, si sa, sono ignare dei loro veri interessi e a occuparsi di loro debbono incaricarsi i professionisti della politica e dell’economia — purché progressisti o presunti tali. Non meraviglia che, in questa strategia dell’occultamento, le risorse estratte dal fisco — per lo più, alle classi medie escluse dal patto corporativo — siano avvolte in un velo impenetrabile sicché pochi sanno che un dipendente, con uno stipendio mensile di 3000 euro ne costa all’azienda o all’ente per cui lavora 6500 ed è ancora più esiguo il numero di quanti conoscono gli usi che vengono fatti degli euro non corrisposti al suddetto dipendente.
A ben guardare, non ci troviamo alla mercé della ‘democrazia corporativa’, come un intelligente collega fiorentino mi ha fatto notare commentando il mio ultimo intervento su ‘L’Occidentale’ su ‘Le due democrazie’ (la pluralista e la liberale). La ‘democrazia corporativa’, infatti, statalizza, per così dire, i ‘soggetti del pluralismo’, li rende responsabili dell’<interesse generale>. In una delle sue espressioni più coerenti e strampalate, il Progetto di costituzione confederale europea ed interna (1942) di Duccio Galimberti e A. Repaci, il potere legislativo, sottratto ai partiti (messi al bando!), viene consegnato alle rappresentanze democraticamente elette delle Corporazioni, impegnate a costruire una vera Repubblica Sociale, ben diversa, ovviamente, dal fantasma sanguinario di Salò.
Quella nostra, invece, è proprio una "democrazia-pluralista-non rappresentativa" in cui i giochi vengono fatti da gruppi di potere che si accordano soltanto sulla spartizione delle spoglie e in cui le elezioni servono certamente — al contrario di quanto credono i falsi moralisti della stampa antagonista, che descrivono la società italiana come una società oppressa dalla dittatura berlusconiana o dal ‘regime’ di pannelliana memoria — ma servono unicamente a designare l’attore politico autorizzato a fare la parte del leone. I ‘soggetti del pluralismo’ si collocano, pertanto, in una terra di nessuno che non è pubblica, come nella Costituzione di Galimberti, e non è privata, come le lobbies americane che condizionano, sì, il processo legislativo ma non al punto che gli interessi particolari prevalgano su quelli generali, comunque questi ultimi vengano percepiti dall’opinione pubblica.
Un noto filosofo politico, sempre commentando il mio articolo su ‘L’Occidentale’, mi ha obiettato che, lungi dallo sperimentare una qualche forma di democrazia pluralista, viviamo in pieno populismo e che il vero pluralismo da noi non sì è mai radicato. Sennonché il populismo evoca una protesta indifferenziata e di massa, in vista di obiettivi circoscritti e in difesa di assetti considerati vitali per una parte rilevante della cittadinanza — ad es., la rivolta fiscale di chi ritiene di cedere allo Stato una parte troppo grande del proprio reddito — laddove, come mostra l’esempio della nuova Università dal quale siamo partiti, qui non ci troviamo in presenza di ‘fratture’ insanabili ma di accordi sostanziali e non necessariamente taciti, peraltro sempre più precari con l’esaurimento dei risparmi accumulati negli anni sessanta.
E’ il ‘teatrino della politica’ — dove sguazzano (e non certo gratuitamente) gli ‘intellettuali’, gli imbonitori televisivi, i comici della satira militante — che ci dà l’illusione di assistere al conflitto epocale tra mercato e Welfare State, tra Hayek e Keynes, tra Rawls e Nozick (con l’aggravante che a rappresentare il liberismo sarebbero da noi loschi personaggi prestati alla politica… per sottrarsi ai tribunali). Come spezzare questo velo di Maya? Per salvarci dovremmo, forse, uscire dalla caverna platonica, dimenticare i Catoni in toga e tocco e i grandi dibattiti sui ‘massimi problemi’ — che tanto appassionano le redazioni giornalistiche, radiofoniche, televisive e che così facilmente rimbalzano nelle aule universitarie — al fine di recuperare la sana curiosità per "come sono andate le cose" (L.Ranke). Finché non avremo detto, come nella canzone Dicitencello vuie di Fusco e Salvo, "Levammece ‘sta maschera, dicimmo a verità", rimarremo condannati ad assistere sempre ai tornei delle ombre.
Con tutti i suoi limiti umani e caratteriali, Bettino Craxi aveva capito la necessità di cambiare registro, di ‘giocare a carte scoperte’. Le cose non andarono per il loro verso (anche per colpa sua) ma consentirono a Berlusconi di raccogliere i voti di una consistente parte dell’opinione pubblica che aveva, sia pure confusamente, intuito il disegno ‘eversivo’ del leader socialista. La zavorra dorotea, con la quale il Cavaliere è stato costretto a venire a patti — anche per ragioni pratiche e organizzative di insediamento nel territorio — non sembra, tuttavia, consentire alla mongolfiera liberale di volare alto (alle difficoltà, oltre tutto, si è aggiunta da qualche tempo la crisi economica): la zavorra non sono le escort, il conflitto di interessi, gli affari di Mediaset bensì un costume nazionale che, nella sinistra politica e sindacale, è ancor di più di casa che nel PDL o nella Lega.