Approvata a Versailles la riforma delle istituzioni

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Approvata a Versailles la riforma delle istituzioni

22 Luglio 2008

Con un solo voto in più rispetto ai 538 necessari per raggiungere il quorum dei 3/5 dei parlamentari riuniti in seduta comune a Versailles, la riforma delle istituzioni voluta dal Presidente Sarkozy è stata approvata. Si tratta della ventiquattresima riforma dal 1958 ad oggi, la più complessa anche in termini di articoli coinvolti, circa la metà sugli 89 che compongono la Costituzione concepita da Charles de Gaulle agli albori della Quinta Repubblica. 

Da un punto di vista politico si tratta certamente di un successo per il Presidente che ha dimostrato di essere in grado di controllare la sua maggioranza, portandola compatta al voto. Le pochissime defezioni hanno riguardato, alla fine, solo alcuni deputati e senatori fedelissimi di Chirac e Villepin e qualche eletto sovranista o legato al gollismo delle origini, convinto che con la nuova revisione si perderà lo spirito originario dei padri fondatori della nuova Repubblica del 1958. 

Ad uscirne al contrario piuttosto malconcio è il Partito socialista, perlomeno da un doppio punto di vista. Prima di tutto al voto contrario compatto non si è unito Jack Lang, personalità di spicco della tradizione socialista francese e protagonista assieme a Balladur della commissione incaricata dal Presidente di riflettere sulle istituzioni e il cui testo finale dell’aprile scorso è stato la base di partenza per le successive discussioni parlamentari. Insomma la riforma istituzionale, nata come occasione di confronto sulle regole tra maggioranza e opposizione, si è trasformata in un referendum pro o contro il Presidente e il Ps non ha saputo sottrarsi all’ennesima occasione di esercitare il suo anti-sarkozismo ideologico. 

Il secondo dato è strettamente legato e riguarda le turbolenze interne ai socialisti in vista del congresso di Reims. Come ha ricordato il Primo ministro Fillon, Reims ha finito per superare Versailles nella scala delle priorità dei socialisti, cioè l’interesse di partito ha abbondantemente sovrastato quello di profilo istituzionale. Votare «sì» alla riforma voluta dal Presidente avrebbe significato presentarsi al congresso di partito con un profilo troppo poco massimalista. La scelta è paradossale se si pensa che, praticamente nel corso di tutti i 50 anni di vita della Quinta Repubblica, il Ps non ha mai smesso di criticare gli squilibri nella ripartizione dei poteri, con il legislativo assolutamente sovrastato dall’esecutivo. Nel momento in cui si è giunti a quella che è parsa la migliore occasione per raggiungere un vero modello di «parlamentarismo razionalizzato», l’opportunità è stata mancata.

Al di là delle ricadute politiche è anche necessario soffermarsi sulle modifiche concrete apportate dalla riforma e tentare una prima valutazione di massima. È certamente falsa l’accusa che si è più volte letta sui media italiani nelle ultime settimane. Nessun nuovo bonapartismo è all’orizzonte. Al contrario i poteri del Presidente della Repubblica sono stati inquadrati da alcune significative limitazioni. Massimo due mandati, perdita della presidenza del Consiglio superiore della magistratura, via i poteri di grazia collettiva e introduzione delle audizioni pubbliche per le nomine degli alti funzionari. Rispetto poi alla bozza della commissione Balladur, certamente più indirizzata verso un sistema presidenziale (in grado di rompere cioè l’ibrido istituzionale del semi-presidenzialismo) non si deve dimenticare che il nuovo testo non scioglie il contenzioso tra Presidente e Primo ministro. I parlamentari infatti hanno eliminato la proposta di inserire in Costituzione l’importante precisazione secondo la quale «il Presidente della Repubblica definisce la politica della Nazione». L’ambiguità dell’esecutivo bicefalo, insomma, non è stata sciolta e non basta certo l’introduzione della tanto discussa possibilità per il Presidente di prendere la parola davanti ai due rami del Parlamento in seduta comune per trasformare il sistema in monocratico. 

Accanto alle norme che inquadrano i poteri del Presidente l’altro vero fulcro della riforma riguarda l’aumento delle prerogative parlamentari. L’articolo 49-3, vero simbolo del controllo dell’esecutivo sul legislativo, potrà ora essere utilizzato soltanto una volta ogni sessione parlamentare e in aggiunta il governo non sarà più il padrone unico dell’ordine del giorno parlamentare. La nuova riforma riduce della metà il controllo dell’esecutivo sul calendario parlamentare. Il nuovo protagonismo parlamentare è poi incentivato ulteriormente attraverso l’aumento da sei a otto delle commissioni permanenti, dall’obbligo di discutere in seduta plenaria il testo uscito dal lavoro delle commissioni e non quello presentato in prima lettura dal governo e infine dall’obbligo per l’esecutivo di sottoporre al voto parlamentare il prolungamento di una missione militare, dopo i primi quattro mesi. 

Se possibile ancora più rivoluzionario, se si pensa al centralismo giacobino francese spesso poco sensibile ai diritti individuali e dei corpi intermedi, è poi l’introduzione della possibilità per un cittadino di rivolgersi direttamente alla Corte costituzionale nel caso in cui giudichi una legge lesiva dei diritti fondamentali e la semplificazione per ottenere referendum di iniziativa popolare (1/5 dei membri del Parlamento, sostenuti da 1/10 degli elettori iscritti). 

Il Ps ha giudicato insufficienti questi risultati e ha sottolineato più le carenze che le novità. Assenza di un vero e proprio statuto dell’opposizione, mancata contabilizzazione dei tempi di intervento del Presidente della Repubblica sui media nazionali, mancata fissazione dello stesso tempo di intervento per maggioranza e opposizione in Parlamento, mancata introduzione di una percentuale di proporzionale nel sistema elettorale per le legislative e mancata riforma del sistema arcaico di scrutinio utilizzato per il Senato. 

Se si vuole trovare un difetto alla riforma quello più evidente consiste nel non aver definitivamente scelto tra presidenzialismo e parlamentarismo razionalizzato, cioè per semplificare tra sistema all’americana e modello inglese. Che sia però questa la forza di un semi-presidenzialismo che, nonostante le numerose critiche, compie quest’anno il suo primo cinquantennio? 

Il Ps, per rincorrere il «meglio» ha gettato via il «bene» presente nella riforma. Vista la difficile congiuntura nella quale si trova, non bisogna nemmeno sottostimare l’impresa raggiunta da Sarkozy. Era possibile ottenere di più nel bel mezzo di una crisi economica e di fiducia come quella che il Paese sta attraversando? Pensando alla nostra eterna transizione quello che si è verificato il 21 luglio 2008 a Versailles assume i contorni di un vero e proprio miracolo.