Aria pubblica

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Aria pubblica

11 Agosto 2007

L’aria è di tutti, non è di tutti l’aria?

Così è una piazza, spazio di città.

Pubblico spazio ossia pubblica aria

che se è di tutti non può essere occupata

perché diventerebbe aria privata.

Ma se una piazza insieme alla sua aria

è in modo irrevocabile ingombrata

da stabili e lucrose attività,

questa non è più piazza e la sua aria

non è che mercantile aria privata.

 

(Non c’è più Pantheon e non c’è più Navona,

Campo de’ Fiori è Cuba di Batista.)

Cos’è una piazza, cos’è quel dolce agio

che raccoglieva i sensi di chiunque

abiti a Roma o fosse di passaggio?

E’un vuoto costruito a onor del vuoto

nell’artificio urbano del suo limite.

Se si riempie è per tornare al vuoto

perché a costituirla è proprio il vuoto,

non fosse vuota infatti non potrebbe

accogliere chi passa e se ne va.

Per dargli maggior credito s’innalzano

fontane e statue: certo sono belle

e grazie al vuoto vantano spendore.

Ma c’è qualcosa che è più della bellezza,

è il loro appartenere necessario

a quel sicuro chiaro spazio vuoto.

E questo è più orgoglioso grazie a loro.

Un vuoto generoso di potere,

una salute certa dello spirito,

un bene di città fatto interiore.

Poveri quelli cui mancano le piazze.

 

(I delegati a conservare il bene

di tutti, cittadini e forestieri,

fuggono il vuoto come peste nera,

per loro il vuoto è vuoto di potere.

Non c’è piazzetta slargo o marciapiede

strada o rientranza che, sequestrata,

non si trasformi in gabbia. Da riempire.

Che cosa la riempie non importa:

chiasso puzze concerti promozioni

i cinquemila culturali eventi

fiere-mercato libri chioschi incensi

corpi seduti o in piedi nella mischia,

purché sia tutto pieno, dura festa.

Sì, li commuove il numero, e per loro,

i fatui e solerti promotori,

gli animatori Méditerranée,

vita che ferve è il numero di birre

che viene consumato in una notte

-si ferma il sangue alle bottiglie rotte

che a scrosci inaspettati l’AMA inghiotte,

sadica AMA, a memento della notte.)

 

E’ naturale che si vada in piazza,

ci vanno tutti, e certo non c’è piazza

che si attraversi in fretta: quasi una timidezza

rallenta i passi alle fontane, all’acqua

che fa il suo giro e torna su se stessa.

La mente sosta insieme al corpo e guarda

lo spazio e l’aria del riposo, ossia

la piazza.

 

(Ora è una fuga torva verso casa

fra stretti corridoi di ferraglie,

ora è l’inciampo, l’ostacolo, il disgusto,

l’inimicizia, l’odio degli oppressi.)

 

Dunque una piazza va lasciata in pace,

non è merce da farne propaganda.

Ci pensa lei da sola ad animarsi,quello che importa è che sia pubblica piazza.

Si vuota si riempie e poi si vuota,

accoglie chi sta fuori e lo contiene

finché sta fuori, che prima o poi dovrà

tornare dentro. E se non è così

non è più piazza, è privata terrazza

o lugubre infinito lunapark.

 

(Sonno rubato a noi quasi bosniaci

cui suggeriscono in conferenze stampa

di abbandonare case e territorio

-“nessuno vi impedisce di andar via”.)

 

La felice bellezza negligente

sta ferma intorno a te senza rumore,

l’hai vista, sai che c’è, neanche la guardi.

Era il lusso di andarsene per Roma.

 

(Come faccio a non sentire quel rumore,

come posso, anche volendo, non vedere

quell’ingombro massivo e prepotente

che intralcia i passi e che la vista offende?

Le ignobili fioriere stercorarie

che a loro alibi hanno pianticelle

sporche e avvilite, a morte destinate?

I tavoli, gli ombrelli, le sediole,

le stufe a gas letali, i cellulari,

che attrezzano chiunque a far casetta,

con veranda? Le insegne tozze e storte,

di sbieco i cavalletti coi menù,

ferri sporgenti pronti allo sgambetto,

transenne traballanti e le ringhiere

che chiudono in recinto i più paganti?

Gonfi recinti svelti a dimagrirsi

quando arriva la finta dei controlli.

Come faccio a non vedere la fatica,

quasi ridicola, di chi si ostina

a spingere il pupetto in carrozzina?

E lui cosa vedrà, laggiù, nel basso?

Se non è merda è piscio e noccioline.

 

Non c’è più il dentro, finito anche l’inverno,

ora ogni dentro si è triplicato in fuori

per ingordigia di prendere e occupare,

quanto più puoi, prendere e occupare,

che tanto poi ti lasciano restare.

“Ma io lavoro, che credi? io lavoro!”

“Cara, è la storia, non la puoi fermare”.

I furbi avidi lo chiamano il Lavoro,

i pigri ipocriti la chiamano la Storia.

Storia e Lavoro, la famosa coppia.

 

Non basta togliersi a quella bieca vista

abbandonando la feroce piazza,

perché l’offesa t’insegue nell’udito

supera porte e ottusi doppi vetri,

sciupa le notti e fa i risvegli smorti,

rovello che s’insedia nei pensieri,

un male di città fatto interiore).

 

Ci sono forse altre città nel mondo

che hanno piazze più belle delle nostre,

piazze perdute alla vista e al cuore

piazze vendute insieme alla città?%3C/p>

Da  Pigre divinità e pigra sorte, Einaudi, 2006

(Per gentile concessione dell’autore e dell’editore)