Ascesa e declino dei Florio, calabresi di origini ma di fasti siciliani
19 Luglio 2009
Forse la storia più emblematica di splendori e miserie della modernità isolana. Una famiglia, i Florio, di origine calabrese, che giunta nella Palermo borbonica fa rapidamente “piccioli” a palate grazie a qualcosa di simile a uno scagno genovese per poi allargarsi a ogni sorta di attività, speculativa o imprenditoriale non fa differenza.
Targata Florio è l’intera belle epoque del capoluogo siciliano. Così, il suo liberty frizzato di barocco. Sono i monumenti griffati Basile, la villa Igea e un po’ tutto l’esotismo e la grandeur che, ancor oggi, attraversa gli assi portanti della città. Ma, soprattutto intrinsecamente Florio è una mentalità assai diffusa in particolare fra i ceti alti, a cui non è estraneo neppure il popolo minuto, i disperati residente nei “catoi” del centro storico piuttosto che i tanti avventizi che si campano alla giornata. In breve, un’idea di sé esorbitante. Un misto di dinamismo personale, a cui non sono estranee iperboli, raramente accompagnato da supporti di base se non adeguati quantomeno potabili. Una combustione dal ritmo incessante di intuizioni e velleità, di intelligenza e di capriccio che nella stagione insieme splendida e melò della dinastia imprenditoriale più nota dell’isola si riassume con accenti di amara verità.
Qualche tempo addietro, per i tipi di Bompiani (pagine 736, euro 25,00), è uscita, e prontamente “ignorata” da citazioni di sorta (ridotte esclusivamente alla stampa locale), una corposa biografia collettiva della celebre stirpe firmata da Orazio Cancila, navigato “modernista” dell’Università di Palermo. Nel volume, più di settecento pagine, che s’intitola semplicemente “I Florio”, si segue quasi maniacalmente – con tanto di dati, bilanci, numeri e resoconti – per filo e per segno quell’epopea. C’è il periodo dei costruttori, “che iniziarono in maniche di camicie” e quello opposto – tre generazioni sono sufficienti per il tracollo – che riporta la comune condizione allo stato di partenza. Il perno del dramma ha nome Ignazio Florio junior. Un bel giovanotto che all’improvviso, appena scavalcati i vent’anni, per la morte prematura del genitore si trova alla testa di un impero e comincia, praticamente da subito, a inguaiarsi. A dargli man forte, eppoi a spingerlo risolutamente quanto involontariamente verso il baratro, una moglie bellissima, algida, e soprattutto dissipatrice. Si chiama Franca, è la rampolla di una nobile schiatta piuttosto in disarmo. Ha modi regali e incantati, ma soprattutto pretese che non conoscono limiti.
Ignazio la tradisce e, al contempo, la vezzeggia. Ogni passo falso, un cammeo degno di una sovrana.
L’intreccio fra debolezze del capo famiglia e vanagloria della legittima sposa produce una reazione chimica micidiale. In realtà, romanticherie e struggimenti a parte, Ignazio è un imprenditore abbastanza scostante, dai voleri intermittenti e dalle assenze prolungate.
Palermo è nel frattempo una sorta di Montecarlo ante Grande guerra. In città, arriva il meglio dell’alto bordo europeo, incluse numerose teste coronate. I Florio sono i capofila dell’accoglienza con tanto di festeggiamenti da sardanapali. Naturalmente le attività pratiche ne soffrono. La cantieristica langue e più intricati diventano le relazioni con la politica. Ignazio è un pezzo di un sistema che alla lunga non regge. Segue una transazione infinita. I passaggi finali avvengono a Italia oramai fascistizzata. E anche in quei frangenti la buona volontà di settori importanti del regime, Benito Mussolini fra gli altri, non riescono che a ritardare l’inevitabile crack. Un declino intriso di amarezze, di risentimenti e soprattutto capace di alimentare il mito dei Florio, spazzati via, non in ragione di una gestione prolungatamente cattiva dei propri affari, ma per una sorta di vischioso malanimo da parte dei padroni delle ferriere del profondo Nord.