Ascesa e rovina del ’68. L’illusione del piacere e il ritorno della realtà
14 Ottobre 2007
Parlare del Sessantotto mi riesce sempre piuttosto difficile. Intanto perché allora avevo soltanto sedici anni e i miei interessi si orientavano prevalentemente sul calcio e sulle ragazzine (irraggiungibili, visto che il Sessantotto stava appena arrivando); poi perché, anche in seguito, non sono mai riuscito ad immedesimarmi fino in fondo con lo Zeitgeist di quegli anni. Ne ho assorbito senz’altro il modo di vestire e di portare i capelli, le canzoni dei Beatles e di Bob Dylan, una certa passione intellettuale e politica. Ma raramente mi sono trovato in sintonia con le forme che questa passione assumeva nella maggioranza dei miei coetanei. Quando poi, nel 1971, mi sono iscritto all’Università, la frattura tra me e il Sessantotto, il quale evidentemente ancora durava e, almeno in Italia, sarebbe durato ancora a lungo, è diventata pressoché insanabile.
Detestavo i partiti e i movimenti di sinistra al pari di quelli di destra; una bizzaria, questa, che%2C se per molti versi rinsaldava amicizie che conservo a tutt’oggi, per lo più suscitava commiserazione tra i miei compagni di studi. Quando poi dicevo loro che il partito al quale davo il mio voto, senza entusiasmo ma nemmeno turandomi il naso, era la “Democrazia Cristiana” (l’ho fatto finché è esistita), ecco che la frittata era bella e fatta. Lo stesso accadeva nella parrocchia che frequentavo. Anche lì, sempre in minoranza. Un po’ di misericordia nei confronti delle miserie umane dentro e fuori la Chiesa e magari anche nei confronti di noi stessi non sembrava compatibile con lo spirito del Concilio. Anche in parrocchia dovevamo per forza buttar per aria il mondo, mostrarne soprattutto le brutture e le ingiustizie, in vista dell’inevitabile rivoluzione. La sociologia prendeva poco a poco il posto della teologia e la direzione politica quello della direzione spirituale. Poteva così risultare tollerabile che si dubitasse della risurrezione dei morti o della Santissima Trinità, ma guai a dubitare della lotta di classe o dell’infamia dei democristiani al potere. Anche molti preti e vescovi si sarebbero arrabbiati. La palingenesi imminente non poteva essere ostacolata.
Fu così che, fedele all’insegnamento ricevuto da un vecchio amico prete, che più tardi ho ritrovato anche in uno dei tanti aforismi fulminanti di Nicolàs Gòmez Devila, mi convinsi che il mondo di coloro che parlano, scrivono e studiano di faccende umane in generale e di politica in particolare si divida fondamentalmente in due categorie: da una parte quelli che sanno del peccato originale, dall’altra i cretini. La Bibbia, Platone, Wittgenstein e la gazzetta dello sport erano allora le mie letture preferite; Marx e il marxismo della Scuola di Francoforte quelle obbligate, se non altro per avere un’idea di ciò che si dibatteva nelle assemblee studentesche. A tal proposito, non dimenticherò mai le interminabili dispute sui testi di Herbert Marcuse e il fascino che suscitava allora la sua idea di “trasformare il corpo umano da strumento di fatica in strumento di piacere”. Una citazione, questa, che si trova nella “Prefazione politica” scritta da Marcuse nel 1966 a uno dei suoi testi più noti, Eros e civiltà, e che io considero uno dei manifesti più comprensivi del cosiddetto Sessantotto, uno “script”, direbbero i neuroscienziati, un simbolo chiave capace di evocare un’intera storia.
Il freudiano “principio del piacere” –questo il senso dello “script” marcusiano- è stato non soltanto “sublimato”, come pensava Freud, ma letteralmente stravolto nel “principio di realtà”. Occorre pertanto stravolgere la realtà per cercare di liberarlo di nuovo. La cosiddetta civiltà, almeno quella capitalistica, non è altro che oppressione dell’individuo, della sua libertà, della sua spontaneità e, in ultimo, della sua possibilità di essere felice. Insomma una perdita secca. Guai dunque alle regole che inibiscono la nostra spontaneità; guai alla menzogna delle istituzioni liberaldemocratiche; guai a tutto ciò che chiamiamo “razionale” e che invece occulta semplicemente il patto segreto tra il potere e la morte. Largo invece a tutto ciò che è capace di liberare il “principio del piacere”, di rilanciare il desiderio e di combattere la realtà dell’esistente. Così l’immaginazione sarebbe dovuta andare al potere; una pedagogia “critica” basata sullo spontaneismo del fanciullo avrebbe dovuto prendere il posto di quella “tradizionale”; quanto alle principali istituzioni sociali, a cominciare dalla famiglia e dalla scuola, esse andavano semplicemente sbaraccate, quali espressioni di una società ingiusta e repressiva. Questa la cultura che pervadeva allora le nostre Università.
Ovviamente non tutto ciò che si ascoltava a lezione o si leggeva nei libri era marxista o di sinistra; salvo rare eccezioni, si avvertiva tuttavia una diffusa indulgenza verso certe idee palesemente sbagliate (il capitalismo come causa di tutti i mali, l’antiamericanismo, il terzomondismo, la scienza e la cultura in generale da riformare in senso democratico, la religione oppio dei popoli, la lotta di classe, l’immaginazione al potere, ecc.), rispetto alle quali anche coloro che non erano di sinistra faticavano a prendere nettamente le distanze, erano a disagio, quasi che si dovessero in qualche modo scusare per il fatto di non condividerle. Ciò mi convinse di qualcosa di cui continuo ad essere convinto anche oggi, e cioè che l’egemonia culturale da parte di una ideologia fasulla dipende certo dalla buona fede dei suoi sostenitori e magari dall’abilità di coloro che la muovono, ma dipende anche, e direi soprattutto, da condizioni oggettive che la favoriscono e dall’arrendevolezza di coloro che le si dovrebbero opporre. Penso in particolare alla crisi della cultura cattolica e di quella liberale di quegli anni. A parte il movimento di “Comunione e liberazione”, qualche vescovo coraggioso, qualche settore (minoritario) della “Democrazia Cristiana” e qualche cane sciolto qua e là sia in ambito cattolico che in ambito liberale (penso a Indro Montanelli), dobbiamo purtroppo riconoscere che l’omertà, il conformismo e l’arrendevolezza furono impressionanti. E’ vero che l’ideologia dominante sembrava trarre addirittura dalla storia la sua potenza e la sua legittimazione; ma forse avremmo dovuto avere tutti un po’ più di coraggio.
Sono convinto, ad esempio, che gran parte della fortuna della cultura sessantottesca e di sinistra nell’università che ho frequentato da studente fosse dovuta alla sua capacità di farsi interprete delle molte ansie di quegli anni e di presentarsi come la vera alternativa alla cultura che non aveva saputo opporsi e che addirittura era finita per diventare complice del fascismo; dubito tuttavia che tale operazione avrebbe mai potuto aver successo, senza la sudditanza, il silenzio e la complicità di vasti settori della cultura cattolica e di quella liberale; due culture che in Italia, anziché dialogare tra loro, dopo aver dialogato con il fascismo, si disponevano non a caso a dialogare con il comunismo. E poiché nella storia tutto si paga, mi verrebbe quasi da dire che la cultura italiana ha pagato con circa quarant’anni di egemonia culturale di sinistra i venti anni di regime fascista. E oggi paga con lo spaesamento che conosciamo, specialmente tra i giovani, il chiasso assordante e vanesio degli anni dell’egemonia della sinistra. Per fortuna, però, il declino di questa egemonia, se non si è già consumato del tutto, è sicuramente in via di consunzione.
Dopo il crollo del muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica, anche a sinistra hanno dovuto riconoscere che, mentre nell’Europa libera si inneggiava al comunismo, nei paesi del comunismo reale si consumava una vera e propria “tragedia senza compensi”, come l’ha definita Dahendorf; hanno dovuto soprattutto riconoscere i grandi meriti e, in alcuni casi, la grandezza di uomini come Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer, Robert Schumann, Ronald Reagan, Helmuth Kohl e Giovanni Paolo II, alle cui scelte dobbiamo forse le poche cose buone realizzate dalla politica occidentale nel secolo Ventesimo, certamente il più tragico della storia umana. Per farla breve, seppure a malincuore, hanno dovuto riconoscere di aver sbagliato un po’ su tutti i fronti. E se ciò, in alcuni di loro particolarmente convinti della propria superiorità morale e intellettuale (un difettuccio su cui, di recente, si è scritto e si scrive con una certa insistenza), può aver addirittura accentuato una sorta di risentimento nei confronti di chi quegli errori non li ha commessi, è pur vero che siamo di fronte a cambiamenti importanti. Per non dire poi dei grandi temi che sono sul tappeto: dal terrorismo di matrice islamica alla questione mediorientale; dai rapporti Europa-Stati Uniti a quelli dell’Occidente con il resto del mondo; dalla miseria che attanaglia molti popoli del pianeta, all’immigrazione e alla società multietnica; dal rispetto dei diritti umani alla concorrenza economica con paesi, come la Cina, dove di diritti umani quasi non c’è traccia; dalla riforma degli organismi internazionali alla riforma dei sistemi di welfare o d’istruzione; dal rispetto dell’ambiente alle risorse energetiche; dalla bioetica, alla biopolitica, e via di seguito. Si tratta di problemi che, come ho già detto, stanno a indicare una trasformazione radicale del paesaggio socio-culturale in cui viviamo; problemi per i quali non esistono risposte ideologiche preconfezionate e che producono ovunque, ma specialmente a sinistra, fratture assai vistose. E’ vero infatti che nella cultura della nostra sinistra perdurano ancora i tratti del terzomondismo, dell’antiamericanismo, dello statalismo, della diffidenza nei confronti del mercato, della tendenza a spacciare per diritto ciò che è semplicemente un desiderio, ecc (tratti che peraltro si ritrovano in parte anche in altre tradizioni culturali); è altrettanto vero però che non sono pochi gli intellettuali di sinistra che si dissociano da questi stereotipi, che ne parlano in modo critico in Università, nonostante che magari i politici ne facciano ancora ampio uso. E questo, almeno per me, è un buon segno; è il segno che la realtà incomincia a contare più dell’ideologia e che lo stretto collateralismo tra cultura e politica, tra impegno culturale e impegno per il partito, che per molti intellettuali di sinistra, almeno fino a ieri, è stato una sorta di dogma, ormai si sta sgretolando e, con esso, si sta sgretolando anche uno dei principali capisaldi dell’ egemonia culturale della sinistra.
Ovviamente non intendo sostenere che non debba esserci alcun nesso tra il proprio impegno di studiosi e l’impegno politico; trovo tuttavia assai significativo il fatto che su questioni importanti, quali potrebbero essere la presenza delle truppe italiane in Irak o il ruolo della sussidiarietà, molti colleghi di sinistra abbiano idee molto più simili alle mie, che di sinistra non sono, che a quelle dei leader politici per i quali votano. Trovo altresì significativo il fatto che molti intellettuali di estrazione cattolica o liberale che oggi si ritrovano nella cosiddetta “Unione” siano assai meno succubi nei confronti di certe idee sbagliate della cultura di sinistra di quanto lo fossero ai tempi in cui magari votavano, come me, per la “Democrazia Cristiana”. Ma soprattutto mi sembra importante sottolineare l’indubbia ripresa che, anche sotto la spinta poderosa del magistero di Giovanni Paolo II e del suo più stretto collaboratore, il Cardinale Joseph Ratzinger, oggi papa Benedetto XVI, ha conosciuto in questi ultimi anni la cultura cattolica. Se mi è consentito un pizzico di sciovinismo culturale, direi che nessuno dei grandi temi che abbiamo sul tappeto possono essere adeguatamente compresi e fronteggiati, senza fare i conti con l’antropologia cristiana. Segno questo, che davvero la realtà sta ormai prendendo un’altra piega rispetto agli anni lunghi del Sessantotto.
Un certo pensiero postmoderno dissolutivo continua invero ancora oggi a cantare apologie del caso e del nichilismo, esaltando magari il gioco contro il dovere, l’estetica contro l’etica o la spontaneità contro ogni regola e ogni forma di potere; ma appare ormai sempre più evidente quanto poco queste idee aiutino a venire a capo di noi stessi e del mondo nel quale viviamo. Per farla breve, col “principio di realtà” non si scherza; o cerchiamo una conciliazione razionale con esso o rischiamo di rimanerne vittime per averlo voluto dimenticare. Questo è un po’ il messaggio che dobbiamo imparare dal fallimento dell’illusione che si possa vivere felici assecondando semplicemente il “principio del piacere”. Archiviamolo questo Sessantotto e non se ne parli più.