Aspettando Godard, il cinema europeo è morto. Non resta che imbalsamarlo
26 Febbraio 2010
Che la festa cominci. Sono già partite le celebrazioni per gli ottant’anni del regista francese Jean-Luc Godard. Gli italiani hanno deciso di battere i francesi sui tempi. A febbraio si è tenuto un convegno a Udine, un omaggio al Museo del cinema di Torino, e altre iniziative, più o meno grandi, sono annunciate ovunque. Ma che c’è da celebrare? Un compleanno, certamente. Ottant’anni rappresentano sempre una bella età. Poi c’è la lunga carriera del regista, iniziata nel lontano 1959, composta da una settantina di opere di varia natura. C’è anche da ricordare un mito della cultura europea. E, infine, si può acclamare un marchio di fabbrica, poiché Godard è ormai JLG, un’icona come BHL (Bernard-Henri Lévy), o BB (Brigitte Bardot), YSL (Yves Saint Laurent), LV (Louis Vuitton) e CD (Christian Dior, da non scambiare con il compact disc). In realtà ci sarebbe davvero poco da festeggiare. Anzi, bisognerebbe commissionare una bella messa, solenne, con l’organo e il canto gregoriano, in ricordo di un nobile parente: il cinema europeo. Godard è, in attesa di essere imbalsamato come Lenin, il corpo vivente di un santo della celluloide intellettuale, spostato da un posto all’altro, per dimostrare che il cinema europeo è esistito, ed esiste ancora. Ma è un’illusione. Il cinema europeo è morto, per eutanasia. E ad iniettare il veleno in un corpo che negli anni Sessanta del Novecento appariva bello e splendente, ha contribuito lui stesso, JLG, somministrandogli un liquido letale: il «cinema d’autore». Del «cinema d’autore» Godard è stato, è, e resterà, l’esempio più potente. Proviamo a raccontarne la storia.
Un fenomeno culturale della seconda metà del XX secolo è stato spropositatamente mediatizzato, esaltato e mitizzato oltre ogni limite: la «nouvelle vague». Il termine scaturì da un’inchiesta giornalistica condotta da Françoise Giroud e pubblicata sull’«L’Exprèss» nel 1958, dedicata alle mode giovanili. Servì soprattutto per etichettare il nuovo cinema francese realizzato in quegli anni da esordienti, nella stragrande maggioranza giovanissimi, tra il 1959 e il 1963. Lanciata la moda, si è rivelato impossibile ogni successivo ragionamento obiettivo. Da cinquant’anni tutti amano la «nouvelle vague», e stravedono per JLG, il suo maggior interprete. Guai a parlarne male. Godard arriva alla ribalta a cavallo tra il 1959 e il 1960, con un asteroide, schiantatosi su un pianeta sonnolento: Fino all’ultimo respiro, interpretato da uno sconosciuto di grandissimo talento, Jean-Paul Belmondo. Dopo quell’impatto, nella settima arte nulla sarà più come prima. I devoti al verbo godardiano leggono difatti il mondo prima e dopo l’arrivo dell’asteroide. Godard, al riparo perenne delle lenti scure, durante gli anni della formazione, divora film in quantità industriale. Più che un «cinefilo» è stato un «cinefago». Scrive, con stile ricercato e asciutto come la sua figura, caricando spesso la stilografica nella cattiveria, sui mitici quaderni dalla copertina gialla «Cahiers du cinèma», da sessant’anni la rivista di cinema più alla moda. Dopo Fino all’ultimo respiro non si è più fermato. Per un po’ è riuscito anche a fare film abbastanza originali, ma mai come l’opera d’esordio, che resta il suo capolavoro.
Di pellicola in pellicola JLG costruisce il mito dell’autore puro, in perenne lotta contro il sistema. Prima di altri annusa il vento della rivoluzione, aggiungendo l’ideologia a film traballanti. E del Sessantotto è stato, da maoista convinto, naturalmente ben sistemato nei salotti buoni, un vero protagonista. Nel fatidico maggio, prima delle barricate parigine, a Cannes sale sul palco, si aggrappa alle tende e dichiara chiuso il festival. Incredibilmente le cose vanno così. Ma la rivoluzione è una pagliacciata. Scoppiò a maggio, sembrò radiosa, e al rientro delle vacanze i rivoluzionari come JLG si accorsero di essere riamasti soli, senza popolo da guidare. Caddero molte certezze, e piano piano il regista di Fino all’ultimo respiro tornò al «cinema d’autore», pur se in lento declino. L’ultimo colpo d’ala gli arriva dall’Italia. A Venezia vince inaspettatamente il Leone d’Oro nel 1983 con Prénom Carmen. Poi il Vaticano, attaccando l’evanescente Je vous salue, Marie (1985), ritenendola opera blasfema, porta per l’ultima volta un numero rispettabile di spettatori in una sala dove si proietta un film di JLG. Quindi da venticinque anni nessuno, persino i francesi, è disposto a pagare il biglietto per assistere ad un film di Godard. Nello stesso periodo di tempo la bibliografia internazionale dedicata a JLG è diventata imponente; le università di tutto il mondo si occupano della sua opera; e la fedele, benché ristretta, comunità dei godardiani, non ha mai smesso di credere nella GodArt.
Godard ha gusti sofisticati, con tocchi talvolta snobistici. Dichiara di aver letto Céline prima dei classici, proprio come il cinema, che prima di diventare classico è stato, attraverso l’avanguardia, modernissimo. Al genio di Alfred Hitchcock, amato senza riserve dai compagni di scorribande all’epoca d’oro dei «Cahiers», preferisce la sregolatezza di Nicholas Ray. E non disdegna affatto John Ford. Siamo vicini all’eresia. Il favore concesso all’ideologo yankee con la Bibbia in una mano e il Winchester nell’altra, spiega molto bene chi è Godard. JLG ha sempre avuto, sin dai tempi del giornalismo, il talento di stupire. La venerazione per la teatralità, per il colpo di scena, per l’entrata ad effetto. Il collega François Truffaut, ad esempio, non gli ha mai perdonato questa naturale propensione dandistica. In una lettera infuocata lo paragonò a Ursula Andress: un’apparizione fugace, due battute appropriate, tanti flash e via, di nuovo nell’ombra e nel mistero.
Godard è sempre stato così. Preferisce Bergman a Visconti, e lo dice senza troppi pudori. Legge un testo semiologico applicato al cinema di Pier Paolo Pasolini; linguaggio oscuro, inconcludente, poetico ma teoricamente farneticante: e lo dice, senza mezzi termini. Pasolini se la prende e dichiara: «quel Godard è un vero coglione». Lui alza le spalle, certo che l’irriverenza ha toccato nuovamente nel segno. Denuncia i danni irreparabili perpetrati da Michel Foucault con i suoi libri; afferma di non capire niente di quanto scrivono i nuovi guru della semiologia, Roland Barthes in testa. Incontrando la sopravvalutata critica cinematografica americana Pauline Kael, JLG si diverte come un ragazzino. Pauline Kael è la vestale della cinecritica statunitense. Una sua recensione è in grado di certificare, come il vino buono, la denominazione di «autore». Negli scritti di Kael l’aggettivo fascista viene usato come una mannaia. Appena il film deraglia dalle sue incrollabili certezze si innervosisce, e spara l’aggettivo a raffica. Naturalmente stravede per Godard. Forse non lo ama davvero, ma metterlo nero su bianco sarebbe un gesto troppo politicamente scorretto. Il regista e la critica si ritrovano in una sala di New York. JLG gioca come il gatto con il topo. Dice di parlare male l’inglese, ma tira all’intervistatrice una trappola dietro l’altra, e il pubblico presente si diverte da morire. JLG ha sempre ritenuto di meritare lo scranno all’Accademia di Francia, dove le celebrità della cultura nazionale da viventi diventano «immortali». Ma quei parrucconi non l’hanno ancora chiamato. JLG non ha mai smesso di parlare male di Hollywood. Anche quest’anno l’Academy ha perso una buona occasione. Avrebbe dovuto assicurare una statuetta d’oro, alla carriera, a JLG. Il suo cinema di fatto ha contribuito in maniera determinante a spianare la strada al successo del cinema americano. Tra un film di Godard e una porcata stelle e strisce, anche il più sciovinista dei francesi, si rassegna: alla larga da silenzi, elucubrazioni e noia mortale di JLG.