Autobiografia di una democrazia difficile

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Autobiografia di una democrazia difficile

01 Giugno 2008

La vicenda umana e politica di Aldo Moro, il suo dramma, prendendo a prestito le parole che egli utilizzò il 9 giugno 1973 parlando al congresso nazionale della Dc si potrebbe definire l’autobiografia di una democrazia difficile.

Aldo Moro, infatti, appartiene alla seconda generazione dei politici cattolici italiani. Quella che per vincoli generazionali non ebbe modo di conoscere la stagione liberale. Non ebbe modo neppure di partecipare a quel difficile e progressivo processo di integrazione nello Stato che culminò con il contributo che i cattolici diedero alla patria in occasione della grande guerra, e che pose le fondamenta per la successiva conciliazione tra Stato e Chiesa.

Partrecipe di quella grande esperienza che fu la Federazione Universitaria Cattolica Italiana tra le due guerre – lui presidente, Giulio Andreotti vicepresidente e monsignor Giovambattista Montini assistente spirituale -, Aldo Moro si formò in un periodo caratterizzato da una profonda crisi del liberalismo e da una sorta di pregiudiziale anti-statuale che trovava origine nel difficile rapporto tra i cattolici e la vicenda dello Stato unitario, e veniva rafforzata dalla necessità di assumere una divisa esclusivamente culturale che consentisse a quei giovani di non opporsi apertamente ma nemmeno compromettersi con il regime fascista.

Nonostante le evoluzioni e le modificazioni, questo patrimonio non sarebbe mai stato del tutto contraddetto. Esso incubò una diffidenza di lungo periodo nei confronti della statualità, che emerge ad esempio nel resoconto sommario della seduta del 20 novembre 1946 della Prima Sottocommissione dell’Assemblea Costituente, laddove Lelio Basso, La Pira, Togliatti, Dossetti e, per l’appunto, Aldo Moro, si ritrovarono nel prospettare una democrazia che si avviasse verso forme organiche, per le quali i partiti avrebbero dovuto ricoprire un ruolo addirittura sovraordinato rispetto a quello delle istituzioni dello Stato.

Ebbe però anche una coniugazione schiettamente liberale, che in un tempo di ideologie forti ed opprimenti portava a non perdere di vista il primato della persone e i limiti della politica. Scriveva Moro sulla rivista Studium nel luglio del 1945: "Vi sono nella esperienza cristiana motivi di questo senso schiettamente liberali, perché cristiana è l’ansia dell’essenziale, cristiano il rispetto religioso per tutte le espressioni della vita, guardate come manifestazioni irriducibili della persona, anche se vengono naturalmente conferite alla vita sociale.(…) Bisogna che la politica si fermi in tempo, per non guastare queste cose: bisogna che essa, riconoscendo volenterosamente i suoi limiti, lasci all’uomo il possesso esclusivo di questo suo mondo migliore, intimo ed originale. Essa è soltanto uno strumento di questa rilevazione ed è nel suo essere subordinata e pronta a servire efficacemente la totalità complessa e misteriosa della vita la sua innegabile grandezza".

Da queste opposte tensioni nasce la controversia permanente della problematica politica di Aldo Moro. Per lui lo Stato non poteva essere né un dato a priori né tantomeno una imposizione. Era un problema aperto; bisognava ricondurre ad esso tutta la linfa vitale della società, assicurando "la piena immissione della masse nella vita dello Stato: tutte presenti nell’esericizio del potere, tutte presenti nella ricchezza della vita sociale".

Questo programma, tradotto in termini costituzionali, nell’Italia dell’immediato dopoguerra significava assicurare un sistema politico ad ampia legittimazione che riuscisse a superare la peculiarità di un Paese che ospitava il partito comunista più forte dell’Europa occidentale e una destra che il passato fascista troppo recente, da solo, già bastava a delegittimare.

Aldo Moro aveva ben presenti queste difficoltà. E allo stesso modo comprese che il 1953 avrebbe costituito una svolta in grado di condizionare la politica italiana per decenni e decenni. Sul piano interno, egli difese la riforma elettorale di quell’anno, con la chiara intuizione che essa avrebbe potuto non solo rafforzare la maggioranza del tempo, ma anche accelerare la fine di quel blocco in grado di condizionare il sistema che derivava dalle particolari condizioni geopolitiche del nostro Paese.

Moro difese allora quella legge con parole che suonano oggi incredibilmente attuali: "La democrazia non è soltanto il regime della maggioranza, ma è il regime del rapporto necessario, della garanzia permanente di esistenza e di funzionalità, ciascuna nel proprio ambito, di una maggioranza e di una minoranza. (…) Bisogna, nell’ambito di un reggimento democratico, che la maggioranza possa orientare, dirigere, prendere inziative e decisioni, e che la minoranza possa con forza e sicurezza operare secondo la sua funzione di controllo, proporre delle alternative, permettere eventuali mutamenti nell’orientamento del Paese".

Quella legge, come è noto, non esplicò i suoi effetti. Si affermò così un’idea di democrazia assolutamente differente, che avrebbe prevalso fino alla fine degli anni ’70, fino alla morte di Aldo Moro. E questa realtà si coniugò con una nuova fase della guerra fredda, che dopo la morte di Stalin rendeva certamente meno probabile una soluzione armata, ma che d’altra parte, dopo la rottura intervenuta tra Tito e Stalin, poneva l’Italia in un quadro geopolitico che ne richiedeva la endemica debolezza.

In tale contesto, dunque, da allora in poi Moro avrebbe dovuto sviluppare il suo programma di allargamento delle basi statuali, sfruttando le opportunità storiche e le contingenze internazionali senza per questo transigere sulla difesa di una specificità politica e culturale che si rifaceva al patrimonio del cristianesimo politico italiano.

In questa ottica va letta la sua apertura al centrosinistra. Si trattò di una scelta riluttante, di paziente ricerca di punti di convergenza riformistici che nulla davano per scontato a priori. Moro non esercitò mai una mera devoluzione di potere verso la sinistra; né il suo centrosinistra può essere descritto come una tappa di quella ricerca di equilibri più avanzati che pure nel partito cattolico trovò i suoi adepti. E solo di fronte alla crescente tensione cui fu sottoposto il sistema, in presenza di una fase di distensione internazionale che pareva destinata a durare, egli spostò la sua attenzione verso i comunisti.

Non si trattava insomma di una ulteriore apertura a sinistra, bensì di un nuovo tentativo di inlcudere quelle masse e quelle energie senza le quali tra società e Stato si sarebbe aperto uno iato ai suoi occhi troppo ampio. Moro era ben consapevole delle differenze sul terreno internazionale, sul terreno programmatico, sul terreno della cultura politica. La sua terza fase altro non era che il tentativo contingente di costruire un minimo tessuto connettivo, per poi tornarsi a dividere. Non fu mai una abdicazione nei confronti del suo patrimonio originario, e tantomeno nei confornti del suo partito.

Valgano a tal proposito le parole che Moro pronunziò in difesa della Dc il 9 marzo 1977, quando in Italia vi era chi quel partito avrebbe voluto processarlo sulle piazze: "Difendiamo dunque uniti la Democrazia cristiana […] Quello che non accettiamo è che la nostra esperienza complessiva sia bollata con un marchio di infamia in questa sorta di cattivo seguito di una campagna elettorale esasperata […] A chiunque voglia travolgere globalmente la nostra esperienza, a chiunque voglia fare un processo, morale e politico, da celebrare, come si è detto cinicamente, nelle piazze, noi rispondiamo con la più ferma reazione e con l’appello all’opinione pubblica che non ha riconosciuto in noi una colpa storica e non ha voluto che la nostra forza fosse diminuita […] Abbiamo certo commesso anche degli errori politici […] E come frutto del nostro, come si dice, regime, c’è la più alta e la più ampia esperienza di libertà che l’Italia abbia mai vissuto nella sua storia; un’esperienza di libertà capace di comprendere e valorizzare, sempre che non si ricorra alla violenza, qualsiasi fermento critico, qualsiasi vitale ragione di contestazione, i quali possano fare nuova e vera la società".

Sia prova di tutto ciò il fatto che quando il 16 marzo Moro fu rapito prima di recarsi alla Camera dei Deputati per il dibattito sulla fiducia al primo governo che avrebbe dischiuso le porte della maggioranza al Pci, i problemi che riguardavano la composizione di quell’esecutivo erano tutt’altro che risolti, proprio per la caparbietà con cui Aldo Moro avrebbe voluto difendere principi e uomini.

Solo questo retroterra consente di leggere il comportamento di Moro nei giorni tragici della prigionia e decifrare le sue lettere, che indussero un interprete d’eccezione come Leonardo Sciascia ad affermare che Moro più che un grande statista fu un grande democristiano. Si può convenire, aggiungendo però che egli aveva ben chiaro che la Dc rappresentasse in vigenza di guerra fredda la garanzia per la costruzione di uno Stato effetivamente moderno. Per l’imprevedibilità della storia, il suo programma si accelerò dopo la sua scomparsa, e dopo la caduta del Muro è divenuto il problema del sistema politico italiano. Una transizione durata quattordici anni attesta quanto fosse forte e resistente, seppure in un quadro storico modificato dalla fine del comunismo, il residuo di quella storia che Moro cercò di ammaestrare.

Al dunque la coincidenza tra Stato e società, la legittimazione reciproca tra le forze politiche, la trasformazione dei nemici in avversari è avvenuta attraverso un assestamento del sistema politico dalla parte del centrodestra, anziché sulla sinistra come Aldo Moro aveva previsto. Lo si deve alla capacità degli uomini ma anche al cambiamento dei tempi, al tramonto di un secolo segnato in profondità dal comunismo internazionale e dalle sue ricadute nazionali.

Moro non poteva neppure immaginare un simile scenario nel momento in cui la sua vicenda umana si concludeva nel pieno di una recrudescenza della guerra fredda. Il suo patrimonio politico e culturale appartiene a tutti e non può essere letto disgiunto dal tempo storico nel quale si è sviluppato. Quel che però ci sentamo di affermare è che il risultato finale di questa lunga stagione, che questo nuovo Parlamento attesta con la sua composizione e il nuovo rapporto tra maggioranza e opposizione, per molti versi non gli sarebbe spiaciuto.