Avanti con la riforma Gelmini, è una svolta rispetto al passato
15 Dicembre 2010
Circa sei anni fa, consapevole dei gravi problemi che attanagliavano già allora l’Università, invitai i colleghi del Senato Accademico del mio Ateneo a prendere coscienza degli errori di programmazione commessi nel passato, in modo tale che si potesse trovare nuovo slancio e individuare i correttivi a una situazione chiaramente insostenibile. Avvisai i colleghi che – in assenza di un’impennata di orgoglio e di un’assunzione piena di responsabilità – qualcun altro all’esterno del mondo accademico avrebbe provveduto a riformare il sistema per tentare di tirarlo fuori dal pantano in cui si era cacciato. Dissi anche loro che noi docenti, a quel punto, non avremmo avuto alcun diritto di protestare, giacché responsabili del degrado universitario e incapaci, negli anni, di adottare i provvedimenti necessari per migliorare l’efficienza complessiva degli Atenei.
La riforma Gelmini, puntualmente, è venuta a confermare le previsioni di allora mettendo mano, come da tempo era evidente si dovesse fare, ai problemi dell’Università.
In molti si sono soffermati ad esaltare le norme riportate nella proposta di legge e in molti le hanno criticate, questi ultimi per la verità in modo assai generico e strumentale. Il principale appunto che si dovrebbe fare a questa riforma è che avrebbe potuto affondare di più il bisturi nelle piaghe dell’Università, mostrando una maggiore severità nel definire le regole del gioco, anche a costo di limitare maggiormente l’autonomia degli Atenei. Tuttavia, l’aver lasciato alla responsabilità di questi ultimi molte prerogative denota lo sforzo del ministro di ricercare un disegno di legge ampiamente condiviso, per gestire innanzitutto l’emergenza e per non far venir meno all’Università la fiducia di cui, a prescindere dagli errori fatti, ha bisogno.
Da addetto ai lavori ritengo che quella varata dal ministro Gelmini sia una buona riforma, in grado di rimettere l’Accademia italiana in carreggiata. Forse non la migliore delle riforme, ma comunque un primo passo importante nella giusta direzione, dopo anni di errori, inerzie ed esitazioni.
Per dimostrare, quindi, che siamo di fronte a una svolta, tenterò di ripercorrere brevemente gli ultimi decenni di vita dell’Università italiana, evidenziandone i momenti critici e sottolineando in che modo la riforma pone rimedio ad alcune delle questioni rimaste sinora irrisolte. Un’analisi completa dell’evoluzione universitaria recente sarebbe estremamente complessa e richiederebbe molto spazio. Concentrerò perciò l’attenzione sulle più importanti riforme del sistema che hanno caratterizzato lo sviluppo delle Università nell’ultimo trentennio. Mi riferisco, in particolare, alla legge del 1980, all’introduzione dell’autonomia universitaria e alla riforma degli studi con l’introduzione dei diplomi universitari prima e del tre più due dopo.
L’attuale assetto della docenza è stato definito dal Dpr 382/80, che introdusse il ruolo dei professori di seconda fascia e quello dei ricercatori. In particolare, per questi ultimi la riforma prevedeva uno stato giuridico pressoché indefinito, nonostante le battaglie sostenute nel corso degli anni per rivendicare una maggiore attenzione da parte sia del legislatore che del corpo accademico. In effetti, nello spirito della riforma, il ruolo del ricercatore era concepito per essere solo una fase di transito per la carriera accademica ed era strumentale al superamento del sistema di cooptazione in vigore fino a quel momento. In sostanza, veniva sancito il principio che, per accedere alla docenza, fosse necessario sostenere un concorso per titoli e prove di esame, ovvero che alla base della selezione dei nuovi professori universitari ci fosse il merito.
In realtà, lo spirito di quella riforma è stato sconfessato dai fatti per molteplici ragioni, che vanno da un’errata gestione dei concorsi ad un’applicazione piuttosto generosa delle norme transitorie che ha prodotto un sovraffollamento di docenza in molti settori. Non mi dilungherò nell’elencare le criticità del Dpr 382 emerse nel corso degli anni e mi limito ad osservare che, nel primo decennio di vita del decreto, ai ricercatori era richiesto un limitato impegno didattico che escludeva di fatto l’accesso alla professione di docente. Le rivendicazioni dei ricercatori che chiedevano maggiore dignità, unite a circostanze contingenti quali l’aumento delle discipline, hanno aperto le porte dell’insegnamento ai ricercatori. E’ sorprendente che oggi, in nome delle ragioni della protesta, questi decidano di ritirare la disponibilità a ricoprire incarichi di docenza, facendo compiere alla categoria un balzo indietro di vent’anni.
Negli ultimi trent’anni la classe docente non ha mai avuto la possibilità di un ricambio graduale, requisito indispensabile per favorire la qualità. La carriera universitaria è stata caratterizzata da lunghe attese, cui sono seguite massicce immissioni in ruolo a scapito della selezione. Si capisce, quindi, quanto fosse necessario ripristinare regole concorsuali che guardassero al merito piuttosto che alle contingenze e che garantissero verifiche di qualità in tempi ragionevolmente certi. La riforma Gelmini concede questa opportunità di miglioramento, a condizione che i professori ordinari sappiano assumersi le proprie responsabilità e che l’intero sistema universitario dimostri di meritare l’autonomia conquistata da circa un ventennio e di cui finora non si è fatto buon uso.
Abbiamo introdotto, così, la seconda riforma cardine: quella che ha portato all’introduzione dell’autonomia delle Università. Si tratta di una questione strettamente legata al tema delle risorse. E’ evidente che lo Stato, specie in periodo di crisi, non può provvedere da solo a finanziare la ricerca e, d’altra parte, il mercato è pieno di fondi da destinare agli studi, specie in alcuni settori di particolare interesse per le imprese. Ebbene, la maggior parte dei docenti non ha saputo cogliere questa opportunità fornita dall’autonomia e, anzi, ha ritenuto di poter limitare la propria azione al controllo degli spazi all’interno del proprio Ateneo. Invece di cercare risorse esterne si è prestata attenzione a perpetrare un sistema di potere attraverso la moltiplicazione, anche fittizia, delle esigenze didattiche ed amministrative, al fine di ottenere maggiori risorse umane, sia di docenza che di personale amministrativo, anche a discapito della ricerca di qualità. A testimonianza di quanto affermato, si può osservare che nell’ultimo ventennio, a fronte di un notevole aumento di sedi periferiche e corsi di laurea, non ha fatto riscontro un pari incremento di grandi laboratori con attrezzature d’avanguardia. Al contrario, quelli esistenti sono andati via via spegnendosi.
Insomma, non si è saputo fornire ai ricercatori gli strumenti necessari per fare ricerca di qualità. Per tale ragione era necessario predisporre una serie di correttivi che richiamassero tutti ad un maggiore senso di responsabilità. L’autonomia è un bene che ciascun Ateneo deve conquistarsi sul campo, giorno per giorno, con una programmazione più attenta, che guardi al merito piuttosto che agli interessi particolari, e con una strategia che sappia attrarre risorse per fornire agli studenti didattica e servizi migliori. La riforma segue questa linea perché, senza intaccare l’autonomia degli Atenei, distribuisce le risorse su base meritocratica, imponendo un’attenta valutazione della didattica e della ricerca, sulla base di criteri da fissare ex ante e non, come spesso è accaduto in passato, sulla base di criteri estemporanei decisi ex post.
A questo punto, per concludere l’excursus, non resta che parlare della riforma degli studi voluta da Berlinguer, che avrebbe dovuto omogeneizzare i nostri corsi di laurea a quelli europei e, invece, ha prodotto effetti nefasti sul grado di preparazione dei nostri laureati. Da addetto ai lavori, ritengo che la trasformazione dei corsi di studio – il sistema tre più due – sia la madre di tutti i guasti del nostro sistema universitario e denoti la scarsa conoscenza della materia da parte di chi lo ha proposto. Se infatti l’attuale riforma tenta di definire la cornice ottimale al cui interno i docenti, con la loro autonomia e le rispettive competenze, devono dipingere il quadro, la riforma dei corsi di studio è stata una vera e propria invasione di campo del legislatore, che ha preteso di definire la sostanza degli studi universitari, arrogandosi il diritto di sostituire i docenti nel dipingere la tela. Oltretutto, il nuovo sistema ha ridotto il conseguimento del titolo di studio ad un calcolo ragionieristico, basato sui crediti e, in generale, su un criterio di misurazione del carico di lavoro di professori e studenti esclusivamente matematico. Quanto di più assurdo potesse essere concepito all’interno del mondo universitario, troppo complesso per essere ridotto a una rappresentazione numerica.
Tutto questo deve finire e, se non è possibile tornare ai vecchi corsi di laurea, è certamente possibile invertire la tendenza circa i criteri di valutazione degli obiettivi raggiunti e l’eccesso di corsi di laurea proposti nei nostri Atenei, privilegiando merito e qualità e, soprattutto, tornando a ragionare sui contenuti dei corsi di studio. La riforma Gelmini, anche su questo fronte, propone strumenti idonei per superare molte delle criticità del sistema e, se è vero che le risorse per il rilancio dell’Università sono limitate, è anche vero che i docenti hanno l’obbligo di riappropriarsi delle proprie responsabilità e di agire con la massima efficienza per non sprecare neanche un centesimo delle risorse disponibili.
L’analisi storica sin qui brevemente tracciata ci dimostra, in sostanza, che una effettiva riforma del sistema era necessaria per porre fine all’inerzia provocata dalla serie di provvedimenti che sinora non hanno permesso di imprimere all’Università italiana la svolta di cui avrebbe avuto bisogno da tempo. Se la storia è maestra di vita, come recita l’adagio, il cambiamento è l’unica strada percorribile e la riforma Gelmini va esattamente in questa direzione.