Basta aiuti umanitari, per stoppare la food-crisis l’Ue deve davvero aiutare i poveri a produrre

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Basta aiuti umanitari, per stoppare la food-crisis l’Ue deve davvero aiutare i poveri a produrre

09 Maggio 2008

L’economista americano Jeffrey Sachs ha relazionato, di
fronte alla Commissione Sviluppo del Parlamento Europeo, lo scorso 5 maggio, la
sua posizione rispetto alle decisioni prese dal Parlamento stesso in relazione agli
aiuti di “primo soccorso” per l’emergenza alimentare globale. Mr Sachs è stato
advisor dell’ex Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, ed è il
pentito ideatore della “terapia shock” di strategia del mercato che venne
applicata alla Bolivia nella metà degli anni ’90 e nell’Europa orientale dopo
la caduta del muro di Berlino.

Il nocciolo del discorso è stato spostare l’attenzione dagli
aiuti umanitari, semplice palliativo, ad altri aiuti di tipo strutturale come
cura più che sintomatica della food crisis. Una riflessione volta a superare le
tante parole che si spendono nel nostro continente (ma anche negli US) senza
nessuna risoluzione concreta.

“Se rimarremo al livello di aiuti d’emergenza con l’invio di
cibo, non risolveremo il problema – tali aiuti sono ovviamente una misura da
prendere per l’immediato, ma con un orizzonte di al massimo sei mesi. Un
termine maggiore non risolverà nulla: per una soluzione a lungo termine è
necessario indirizzare soccorsi strutturali”. Insomma, il mondo Occidentale, o
comunque i paesi investiti dalla crisi solo ad un livello economico-finanziario
e non di emergenza umanitaria, dovrebbero limitare i costosissimi aiuti
consistenti in invii di derrate alimentari dove lo stato di indigenza è
aumentato come causa di morte; e dovrebbero altresì dedicarsi ad aiutare i
produttori agricoli ad aumentare la produzione di cibo. Aiutare i più poveri
tra i poveri a crescere più cereali.

Questo tipo di logica non è assolutamente nuovo sullo
scenario internazionale. Un esempio virtuoso è stato il Malawi, in cui negli
ultimi tre anni, con grande successo, si è riusciti a raddoppiare la produzione
di cibo. Lo stesso modello di “assistenza” sarebbe applicabile in molte altre
aree disagiate e dovrebbe essere il modus operandi principale per fronteggiare
la crisi alimentare. Secondo l’economista americano, da quanto affermato al
Parlamento Europeo, la crisi nei prezzi del cibo globale è stato un prodotto
della “crescente domanda mondiale di cibo, vigorosa, contro una piuttosto stagnante
fornitura”.

La serie di fattori a cui imputare la colpa del fenomeno è
difficile da individuare ed è molto vasta. Secondo Sachs, però, la prima di tutte
è che nelle regioni povere la produzione di cibo è “molto lontana da quella che
dovrebbe essere”. L’argomentazione è che tali regioni stiano producendo al
massimo un terzo o addirittura un quarto del loro potenziale effettivo, e la
soluzione sarebbe incrementare il cibo in uscita a livelli che corrispondano al
pieno potenziale.

In aggiunta a questo regime ridotto delle possibilità dei
paesi poveri, vanno annoverati i vari sconvolgimenti climatici degli ultimi
anni, che hanno ovviamente colpito la produzione del cibo col cambiamento dei
tipi di clima che hanno condizionato le stagioni di raccolta.

Ma l’interesse per l’intervento dell’ex advisor delle
Nazioni Unite è anche e soprattutto da riferire al recente dibattito sui
biocarburanti. Dopo le decisioni delle politiche UE per l’incremento nell’uso
di biocarburante del 10% entro il 2020, la prima reazione è stata quella di
sottolineare come il biocombustibile non possa essere concausa della crisi. Il
secondo step è stato ammettere che forse sì, il nuovo mercato altamente
avvantaggiato dai sussidi sia stato uno degli elementi a sfalsare gli equilibri
e a ripercuotersi sulla produzione alimentare, ma con la conclusione che le
politiche europee erano del tutto salve da ogni responsabilità: tutta la colpa,
insomma sarebbe stata degli Stati Uniti.

Sachs suggerisce invece un terzo passaggio, aggiungendo la
sua opinione a quelle maggiormente critiche nei confronti dell’utilizzo di
biocarburante: “Dovremmo tagliare significativamente i nostri programmi sul
biocombustibile, che erano comprensibili in un periodo di prezzi alimentari
molto più bassi e di più basse riserve di cibo, ma che non hanno senso ora, in
un periodo di globale scaristà di cibo”.

Al commissario Peter Mandelson (come già sottolineato),
l’economista americano replica con una semplicissima constatazione logica: è
vero che il World Food Programme delle Nazioni Unite, la World Bank e molti tra
gli stessi scienziati americani stanno criticando le politiche statunitensi sul
tema, ma queste avrebbero un impatto maggiore sullo scenario mondiale solo perché
si tratta di un programma di portata molto più ampia di quello europeo. Il
punto è che la modesta estensione del cibo, per esempio il frumento, oggi
utilizzato per produrre biocarburante è da moltiplicare in Europa
considerevolmente in proiezione per i prossimi anni; inoltre i terreni di
coltivazione dei cereali vengono trasformati da terreni coltivati a grano a
terreni coltivati a colza o altre materie prime per la produzione di biodiesel.
Il tutto sì con un impatto inferiore a quello statunitense, ma sempre e
comunque con un impatto che è un sacrificio inutile considerando gli scarsi
effetti positivi ambientali ed i comunque presenti effetti negativi sui prezzi.

In conclusione Mr Sachs ha poi ribadito l’importanza dei
biocarburanti in teoria, specificando che è necessaria ulteriore ricerca per la
“seconda generazione” di biofuel, quella derivante non da sostanze alimentari
ma da etanolo da celluloide o simili. Applicazioni da laboratorio che non sono
pronte per un utilizzo commerciale ma che sono, o potrebbero essere, una
soluzione più sostenibile in alternativa al petrolio e che devono essere
sostenute ed incentivate, così come le soluzioni contro gli ulteriori
scombussolamenti climatici, quali specifici fertilizzanti che rendano i
vegetali “a prova di variazione”, micro-irrigazione e quant’altro, senza
neanche sbarcare nello spinoso mondo degli OGM.

A parte questo ambientalismo un po’ raffazzonato di fondo, dovuto forse al
senso di colpa diffuso di chi proprio per intenti ambientalisti ha determinato
le politiche di USA ed Europa nella direzione che oggi tutti deprecano, l’input
che proviene dall’economista e speriamo approdi nelle menti degli
europarlamentari è molto importante: non serve tanto stanziare ingentissime
risorse finanziarie per inviare soccorsi ai bisognosi; è necessario (come in
Malawi) forzare le economie più deboli ad aumentare ed ottimizzare la
produzione. Con gli stessi investimenti ma col coraggio di lasciare l’emergenza
ancora sanguinante per un po’, senza tamponarla, l’Europa potrà davvero fare
qualcosa per risolvere la “food crisis” e riportare il mercato alimentare
mondiale ad una situazione di sostenibilità per le popolazioni più povere.