Benedetto XVI ritesse il legame con Milano nominando Scola
28 Giugno 2011
Il Cardinale Angelo Scola lascia il patriarcato di Venezia per prendere il posto che fu di Tettamanzi, Martini, Colombo, Montini e Schuster: la diocesi di Milano. La più importante diocesi del mondo, dopo Roma, sia per grandezza sia per storia sia per rilevanza del cardinale che governa la diocesi ambrosiana nel Collegio cardinalizio. Proprio l’importanza di questa nomina fa scrivere ai giornali, ormai da qualche anno, interi romanzi sulle candidature. Il nome di Scola, però, ultimamente si era fatto insistente sicché le voci di corridoio davano ormai la cosa come certa.
Se seguiamo le indicazioni del Cardinale Biffi, che della diocesi ambrosiana è figlio autorevole, fino al cardinale Colombo era invalsa una concezione di vescovo che potremmo riassumere così: vicino al popolo e fermo dottrinalmente. Nelle sue memorie Biffi presenta in questo modo la figura del “suo” arcivescovo di Milano, il cardinale Colombo appunto. Quella di Milano è tradizionalmente una chiesa di popolo, viva nel territorio, dalla vita partecipata e ricca di iniziative, con una storia di parroci vicini alla gente, con un pullulare di associazioni e di movimenti, di Santi e di Beati. Milano è anche una capitale intellettuale – l’Università cattolica, l’Istituto Teologico dell’Italia settentrionale … – ma il suo clero non era tradizionalmente intellettualistico, ma inserito in una religiosità concreta, popolare, tradizionale.
Molti pensano che nel lungo episcopato di Martini e poi in questi ultimi anni sotto la guida di Tettamanzi, quella tradizione sia stata un po’ interrotta. Il clero è diminuito e con esso il radicamento popolare della Chiesa ambrosiana. Consistenti le spaccature tra la strada presa da Comunione e Liberazione e l’altra che con i gesuiti del San Fedele, Città dell’Uomo di Pizzolato (e prima di Lazzati) e l’azione cattolica di Franco Monaco scendeva più direttamente verso la laicità e l’abbraccio con il mondo. Notevoli le aperture a nuove forme di pastorale, meno identitarie e più tolleranti. Considerevoli anche gli insegnamenti di questi due ultimi arcivescovi, talvolta situati sul crinale scivoloso delle interpretazioni in avanti, disponibili all’assunzione di un linguaggio più laico che ecclesiastico e tendenti a privilegiare la Scrittura rispetto alla tradizione. E’ capitato spesso che Martini e Tettamanzi abbiano inteso scompigliare le carte della cattolicità ambrosiana, invece che confermare; abbiano cercato di stimolare più che di rassicurare. Non credo si possa dire che ci sia stata una piena consonanza tra la linea di Giovanni Paolo II e quella di Martini, come tra quella di Benedetto XVI e di Tettamanzi. In qualche occasione il primo ha fatto un controcanto rispetto alle affermazioni di papa Ratzinger e il secondo ha dato l’impressione di privilegiare la carità alla verità. Si è trattato di accentuazioni, ma non per questo insignificanti.
In altre parole, la diocesi ambrosiana è stata il crogiuolo di tante esperienze, ma dopo la sintesi del cardinale Colombo – carattere popolare e sicurezza dottrinale – si sono perseguite strade diverse e né Montini né Tettamanzi sono riusciti a fare da sintesi vera e propria. Proprio negli ultimi anni dell’episcopato di quest’ultimo, per esempio, si è verificata l’ennesima frizione con la linea ratzingeriana: il rifiuto di applicare a Milano il motu proprio Summorum Pontificum con cui Benedetto XVI ha permesso la messa con il rito antico, equiparandola a quello di Paolo VI. La scusa è stata di ricorrere alla specificità del rito ambrosiano, ma dietro c’era senz’altro una impostazione teologica e pastorale diversa.
Per tutti questi motivi ora i commentatori si stanno chiedendo se Angelo Scola invertirà la tendenza e ritornerà alla sintesi del cardinale Colombo, superando eccessi intellettualistici e concessioni eccessive allo spirito di laicità. Dico subito che il mio parere è no. Il cardinale Scola non porterà nessun tipo di sconvolgimento, questo per i seguenti motivi.
Il primo è dato dall’età. Settant’anni sono settant’anni. Un’età che impedisce di fare programmi a lunghissimo termine, soprattutto in una diocesi grande e complessa come quella di Milano. Per cambiare le cose in una diocesi ci vuole moltissimo tempo, anche se si tratta di una diocesi conosciuta come è il caso della propria diocesi di appartenenza originaria. Il secondo è data dall’indole di Angelo Scola, l’indole intellettuale soprattutto. Scola tende più a comprendere che a contrapporre, ad inglobare in una sintesi più generale che a contraddire. E’ un intellettuale sicuramente affidabile sul piano dottrinale, ma che sa anche sfumare e dilatare le prospettive. Leggendo per esempio i suoi libri legati all’attualità sociale o politica si nota una certa tensione al concordismo in un quadro più complessivo più che la tagliente presa di posizione. Del resto, durante la sua permanenza a Venezia, nessuno ha notato particolari correzioni di rotta rispetto ai suoi predecessori.
Certamente la linea non sarà in continuità rispetto a Martini e Tettamanzi, ma non sarà nemmeno controrivoluzionaria. Con ogni probabilità Scola allineerà maggiormente la diocesi sulle posizioni di Benedetto XVI, ma senza rotture e con estrema gradualità. Una gradualità che non potrà portare evidenti conclusioni nel giro di cinque anni. A meno che la nomina non sia stata fatta anche per impedirne qualcun’altra o nel frattempo non ci sia da eleggere il nuovo Papa. Ma questo è un altro discorso.