Beppe Sala “santo subito” e Virginia Raggi strega da bruciare?
21 Dicembre 2016
Ma siamo sicuri che le mosse della magistratura negli ultimi giorni a Roma come a Milano abbiano non dico un coordinamento ma anche solo un segno comune? A me sembra che l’intervento della procura generale milanese su Beppe Sala che in qualche misura scavalca la linea di quella guidata da Francesco Greco risponda in parte (al di là del sicuramente decisivo “merito” del caso) alla logica di settori delle toghe che si sentono un po’ sotto scacco per il ruolo affidato a Raffaele Cantone come agente “preventivo” e legittimatore in ultima istanza dell’anticorruzione. Mentre invece la scelta romana anti Raggi corrisponda anche a una difesa “politica” di Cantone da parte di quel filone dell’anticriminalità più tecnica (contrapposta a quella più ideologica dei Caselli e dei Di Matteo), quella che ha promosso i Cantone (e i Pignatone, i Gratteri) e che secondo diversi osservatori sarebbe espressione innanzi tutto dell’impegno “globale” del Fbi contro mafie ugualmente globali, un’ala tecnica alleata all’ala violantiana di Magistratura democratica che cerca una qualche pacificazione con la politica (peraltro preferibilmente quella di sinistra o semisinstra).
L’asse giustizialista-conservatore (e più corporativo) di conserto con l’asse giustizialista radicale che ha come suo interlocutore fondamentale grillini e Fatto si scontrerebbe, secondo l’idea che mi sono fatto dei movimenti in atto, con un asse tecnocratico – pacificatore (o semipacificatore come si osservava prima). Tutto ciò spiegherebbe meglio quel che sta avvenendo contraddittoriamente da alcuni mesi a questa parte, da certe assoluzioni molto equilibrate che rompono con la tendenza a “coprire” sempre i “colleghi”, fino alla nomina di un radicale pur di destra come Piercamillo Davigo a presidente dell’Anm.
La base del ragionamento da cui si deve partire è che non stiamo facendo i conti con una magistratura come soggetto unitario ma con un sistema feudale che certamente ha una reazione comune corporativa e che dalla Costituzione del 1947 e dagli slittamenti di poteri post ’92 ha derivato complessivamente un peso formidabile nella vita pubblica (anomalo rispetto alle altre liberaldemocrazie), senza però poter esprimere alcuna vera sintesi politica perché questa è impedita dal citato assetto feudale. Cantone in qualche modo ha tentato una sintesi unitaria (per tanti versi non del tutto trasparente e in più d’un caso poco efficace) della lotta alla corruzione, ma proprio perché veniva dalla magistratura (come era successo a Giovanni Falcone) ed esercitava un ruolo che andava contro i livelli di potere reale accumulati da certi settori delle toghe, ha provocato reazioni che sono quelle con cui stiamo facendo i conti oggi.
Si dirà, ma allora aveva ragione Matteo Renzi a fare questa scelta ed è la sua caduta che provoca le reazioni scomposte a cui assistiamo. No, non aveva ragione, perché attribuire certi super-ruoli senza costruire consenso e riforme che aiutino a superare le contraddizioni di fondo determinate dagli attuali squilibri dei poteri, porta solo a esasperare gli scontri. E’ proprio questa idea di un governo dall’alto e tecnocratico (che poi corrisponde alla natura essenziale anche del pasticcetto Boschi, all’approccio al sistema del credito, allo sforzo prolungato per svuotare il potere autonomo del territorio così via renzeggiando), che finisce per provocare le rotture a cui stiamo assistendo. E queste “rotture” non hanno come base la vittoria del No, bensì la piattaforma stolidamente tecnocratica (e peraltro quindi in queste condizioni perdente) del Sì che inevitabilmente accentua tutti i processi di disgregazione con annessa feudalizzazione (e con “imperatori”, che coordinano il sistema, essenzialmente stranieri) dell’Italia.
Se poi si entra più nel merito dei casi di Milano e Roma, mi pare che certi cori per Beppe Sala santo subito e Virginia Raggi strega da bruciare, siano proprio fuori luogo. Lasciamo perdere la politica che è terreno per altre valutazioni rispetto a quelle “penali”, per quel che riguarda la principale imputazione etica (e quasi legale) in campo cioè la cattiva scelta dei collaboratori, il sindaco di Milano batte di gran lunga per le sue scelte all’Expo la collega della Capitale (e tra l’altro prima di assumere responsabilità dirette all’Expo, Sala era il braccio destro di Letizia Moratti in quanto suo City manager). La Raggi di converso, anche per la sua evidente inconcludenza, non mi pare che abbia compiuto sinora errori materiali contestabili giuridicamente. Cosa che certamente ha fatto Sala magari anche solo nella forma leggera e ingenua che ha suggerito Edmondo Bruti Liberati. E la più precisa vicenda di cui si sta discutendo, quella dell’appalto per la “piastra” dell’Expo e annessi-connessi, in sé è sicuramente poco commendevole con i suoi ribassi e compensazioni, e così lo sono le solite scuse del sindaco di Milano: non so che cosa ho firmato. Comunque, io credo che l’interpretazione fondamentale del caso di giudiziario da parte di Bruti Liberati sia stata ragionevole: in una drammatica situazione di emergenza si sono compiute forzature che si può evitare di perseguire penalmente.
Tutti sanno che oggi sforzarsi di portare a compimento operazioni in cui siano coinvolte pubbliche amministrazioni, è assai arduo. Se ci sono, dunque, spazi in questo senso per evitare procedimenti penali che complichino ulteriormente questo stato di fatto, secondo me è assolutamente giusto che lo si faccia. Con due annesse osservazioni però: chi è stato costretto a forzare la legge per assolvere ai propri impegni (prima di City manager della Moratti poi di responsabile dell’Expo) farebbe bene a non candidarsi a incarichi politici che è meglio siano svolti da persone senza pregresse “forzature”, e comunque, se ci si mette in questa impresa, ci si dovrebbe almeno astenere dal fare – come ha fatto Sala – campagne contro gli “impresentabili”.
La seconda considerazione è che peggio di una magistratura che sorvola su atti amministrativi efficaci pur “imperfetti” quando non vi siano motivazioni per l’azione penale assolutamente cogenti (qui non si tratta di discriminare tra i cittadini ma di tenere conto delle funzioni d’interesse pubblico che alcuni cittadini svolgono), c’è solo una magistratura che sceglie di praticare o di rinunciare a una linea di intralcio delle pubbliche amministrazioni anche quando questa potrebbe essere gestita con l’opportuna cautela , in modo unilaterale e politicamente orientato. Insomma non si può far secche persone di amministrazioni grilline per imputazioni che a occhio appaiono sostanzialmente meno pesanti di quelle rivolte contro amministratori di sinistra e, perdipiù, farlo tra gli applausi di opinionisti “progressisti” che alternano garantismo e forcaiolismo, fino al delirio di voler mettere fuori legge il Movimento 5 Stelle o di invocare un colpo di Stato in caso di vittoria elettorale di Beppe Grillo.
La situazione che ho descritto, potrebbe apparire disperata. In parte lo è. L’idea di destabilizzare sistematicamente la politica dopo il 1992 che era al centro della cosiddetta fase di Mani pulite si è rivelata disastrosa. Ormai, tutti sono consapevoli come sia la corruzione sia gli spazi della criminalità organizzata (forse solo in Sicilia e in Puglia si sono ottenute serie vittorie) siano cresciuti. Il commissariamento del Parlamento dopo il 2011 ha aggravato, poi, ulteriormente le cose. L’Italia per recuperare un livello di sovranità vicino a quello delle altre grandi nazioni che fanno parte dell’Unione europea, ha bisogno di una profonda riforma sistemica – cioè sostanzialmente il contrario di quel che si è tentato di fare con il pasticcetto Boschi – ma a imboccare questo percorso serve un recupero della possibilità di fare una politica fondata sul rapporto con la società (altro che guida dall’alto dei processi). A questa prospettiva è senza dubbio di intralcio un movimento di protesta senza radici socio-culturali, ma questo va combattuto solo con la politica, lasciando perdere le stupidaggini (compresa quella delle comparazioni insensate col nazismo).
Altro ostacolo è il peso anomalo che settori della magistratura esercitano sulla vita politica. Questo secondo problema non può essere affrontato con semplificazioni: anche solo la diffusione della corruzione e della criminalità organizzata richiedono un sistema di difesa della legalità particolarmente efficace. Né le critiche politiche che si devono fare a molti esponenti della magistratura possono oscurare i meriti di questi stessi esponenti. Si può criticare il potere esagerato attribuito a Cantone ma senza dimenticarne l’encomiabile impegno contro la camorra. Si può considerare esasperate certe valutazioni tipo Mafia Capitale di Giuseppe Pignatone ma senza scordare l’eccellenza del suo lavoro contro la ‘ndrangheta (e questo vale anche per una pm come Ilda Boccassini certamente non esente da comportamenti estremistici). Di Nino Di Matteo, che non può non essere criticato per un certo furore ideologico che permea la sua azione da pm, sarebbe grave mettere tra parentesi l’eroismo di chi quotidianamente e con sprezzo del pericolo sfida una bestia mortifera come Cosa nostra.
Il problema è modificare il rapporto tra magistratura e politica (operazione che alla fine non può non richiedere anche interventi di tipo costituzionale) senza delegittimare un’istituzione che ha un ruolo decisivo nel garantire il rispetto dei diritti dei cittadini. Ci vuole un mix, in questo senso, di visione sistemica e di pragmatismo, e se si trova questo mix si potrà contare anche sull’appoggio delle migliaia di toghe che sono insofferenti dell’eccessiva politicizzazione della loro categoria ma che non vogliono mettere in gioco la propria indipendenza. In questo contesto i lodo Bruti Liberati (di fronte a situazioni di emergenza vanno tenute in considerazione attenuanti specifiche per gli amministratori pubblici) sono necessari per passare la fase di transizione ma, al contrario di quel che avvenne nella stagione di Mani pulite, non possono essere applicati unilateralmente secondo logiche di parte politica.