Bersani contro Veltroni: finalmente una vera resa dei conti

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Bersani contro Veltroni: finalmente una vera resa dei conti

06 Febbraio 2009

E’ finita la stagione dei “fratelli coltelli”, anzi, per meglio dire, è finalmente finito il centralismo democratico, una delle tante eredità funeste del Pci, quel “morto che trascina con sé il vivo” che ha rischiato di ammazzare in culla il Partito Democratico. Questo è il significato epocale di un fatto apparentemente piccolo e normale: l’annuncio di Pierluigi Bersani di porre la propria candidatura alla segreteria del Pd nel congresso del prossimo autunno.

In qualsiasi altro partito di sinistra del mondo, la notizia sarebbe giudicata interessante, nulla più. Nel Pd, invece, è addirittura sconvolgente, per la semplice ragione che ci sono voluti esattamente venti anni – ripetiamo: venti anni – e la successione di ben cinque segretari del partito, prima che alla elezione per la segreteria partecipassero candidati realmente contrapposti, espressione di una profonda battaglia politica e programmatica interna al partito (l’apparente eccezione del 1994, della votazione tra D’Alema e Veltroni dopo le dimissioni di Occhetto, conferma la regola: fu un rapidissimo duello sui caratteri, durato due settimane).

Ora Bersani finalmente “rovescia il tavolo”, mette la parola fine alle manovre di corridoio, alle finte, alla gara tra fondazioni, a quel parlare a suocera perché nuora intenda che ha ammorbato gli ultimi anni di vita dei Ds e poi del Pd. Rotta la stucchevole competion tra Castore e Polluce, Bersani ha ora lanciato il suo guanto di sfida a Veltroni.

Certo, non rappresenta sicuramente il “nuovo”, ma è una classica “testa d’uovo”, la cui vita è tutta determinata dal cursus honorum del Pci emiliano. Certo, non è un outsider, perché è evidente che dietro di lui si muove con occhiuta attenzione Massimo D’Alema e tutta la sua componente del partito. Certo, che la sua piattaforma programmatica è quanto più pasticciata possibile, perché parte dalle sue liberalizzazioni abortite durante il governo Prodi e arriva all’appoggio all’estremismo sterile di Epifani e della sua politica di massimalismo sindacale. Certo, infine, che non sarà una rottura di stile, niente a che fare con Obama: Bersani usa e abusa di una retorica da comizio, però ha un vantaggio: è ancorato saldamente all’unica base sociale certa – o quasi – che resta alla sinistra dall’eredità del Pci: il mondo cooperativo e la società civile emiliani. Non è insomma un’ondivagante, sa bene quali sono i poteri reali nella società e ha rapporti diretti – e antichi – con il mondo bancario (sia pure oggi con quello “perdente” e questa sconfitta è anche colpa sua). Usa “la frase” e abusa di propaganda, ma non ha il terribile difetto di Veltroni di credere poi alle panzane che deve dire per propaganda. Il suo difetto fondamentale, lo si è visto nel governo Prodi, è tipico della sinistra italiana: sa concepire eccellenti riforme – vedi liberalizzazioni – ma poi, a fronte della protesta sociale e di piazza di chiunque, anche dei tassinari, non ha in sé la lucidità politica e gli “attributi” per resistere. D’altronde nella sinistra politica italiana c’è stato un solo leader che aveva alto respiro riformista e “attributi” per resistere alla piazza. Era Bettino Craxi.