Bersani, Renzi e quell’incapacità di far fronte alle sfide del nostro Paese
03 Dicembre 2012
Anche i critici della politica spettacolo sono sensibili allo spettacolo. Lo spettacolo politico, d’altronde, s’impone perché, da sempre, porta con sé una sostanza: conferisce o toglie, rafforza o indebolisce ‘legittimità’. Sia detto contro ogni ripugnanza aristocratica e, anche, come attenuante alla eccessiva quantità di piombo che la stampa ha dedicato allo scontro Bersani-Renzi, fino al ‘duello finale’, come titolava un grande giornale nazionale, sfidando il ridicolo. Ma, contro l’effetto di dilatazione simbolica che la teatralità produce (pur nelle mediocri scenografie democratiche, tra timer e maniche di camicia), quasi tutti abbiamo i nostri filtri critici. Ora, a mio avviso, poco o niente di quanto i commentatori hanno apprezzato nell’uno e nell’altro contendente, pur apprezzabile, ha a che fare con un governo del paese all’altezza dei nodi di lungo periodo ‘venuti al pettine’ nel corso 2011.
Da un lato, la saggezza pratica, la celebrata esperienza, di Bersani ha una cifra, nota, quella che (aggiornata quanto si voglia) attinge alla matrice di centro e sinistra che ha costruito nei decenni il nostro welfare, facendo leva sull’imperativo dell’utilità ‘sociale’ dell’impresa e della cosa pubblica per giustificare l’allocazione para-assistenziale di immani risorse, e rinviando razionalità ed efficienza ad un ‘dopo’. Quel ‘dopo’ che ora incombe, senza lasciarci scelta né respiro. Fu una prassi voluta e, circolarmente, imposta da forti egemonie in grandi aree del paese. Che l’on. Bersani e parte della élite PD sappia bene tutto questo non basta; le condizioni stesse della vittoria elettorale (e delle necessarie alleanze per ottenerla) sembrano imporre alla coalizione di sinistra-centro la conferma, solo riveduta e corretta sui vincoli di spesa, di un welfare assistenziale (quello che Vendola definisce ‘l’uscita a sinistra dalla crisi’), garanzia per quanto resta dell’egemonia territoriale. Il blocco, dunque, della strategia del governo Monti e ancora un rinvio della svolta riformatrice relativa alla costituzione materiale prima che formale e scritta.
La sfida di Matteo Renzi non appare, però, alternativa su questa biforcazione (tra la protezione del welfare residuale e la mutazione del sistema, della costituzione economica) pure non eludibile. Anche supponendo che l’allineamento tattico di Renzi ad una cultura dei ‘diritti’ con baricentro a sinistra, o la ‘qualunquistica’ polemica (infelice in sé, indipendentemente dal suo uso elettorale) contro Equitalia, siano stati un colpo al cerchio (fedeltà di partito, per attirarsi anche simpatie ‘vendoliane’) e uno alla botte (ammiccamento alle insofferenze dei ceti tassati, di norma difesi dalla quota anti-Monti del centrodestra), la percezione del cittadino non ‘incantato’ è quella di una vis ‘novatrice’ cui corrisponde, nel Sindaco, una ragione politica troppo ‘liquida’.
Sul “Sole24ore” (29 novembre) Sergio Fabbrini ci ha ricordato, con precisione e forza: “non ci possono essere dubbi che i problemi italiani abbiano a che fare con il declino economico e l’indebitamento pubblico”, dunque “nessun leader può rivendicare la guida del paese se non riconosce i problemi nella loro crudezza”. La risposta a tale condizione strutturale non passa per lo stampare denaro (a lungo la ricetta degli USA), né per provvederne lo stato né il mercato, poiché, lo sappiamo, il declino economico mangia denaro, non se ne avvale, se non in negativo come nell’ultimo ventennio, gonfiando debito pubblico e un risparmio privato protettivo, poco attivo – che oggi si sta polverizzando. Dalla vis del sindaco di Firenze, un sindaco ‘privatizzatore’ che aveva generato attese anche nel ‘riformismo’, che è oggi patrimonio del centro-destra, ci si poteva attendere maggiore chiarezza o coraggio.
Fabbrini ribadisce che per “risolvere i nostri problemi strutturali occorrerà [da parte di chi governerà la nella prossima legislatura] mettere in discussione interessi consolidati, (…) corporativismi diffusi”. Questo assomiglia alla ‘rottamazione’ di Renzi, ma è altra cosa. Su altra scala anzitutto, perché solo nelle regioni ‘rosse’, dove le rendite di posizione nel sistema PD e nella società civile coincidono, la battaglia sul partito interessa la governance. E più in profondità: gli ‘interessi consolidati’ sono la trama stessa della nostra società, i suoi segmenti, i suoi livelli; una società ovunque assestata corporativisticamente, lì per ottenere la mera sussistenza qui la tranquillità del posto altrove alti redditi, ma sempre nella intoccabilità dei corrispondenti sistemi di erogazione e scambio di beni economici e politici.
La netta perdita di potere d’acquisto conseguente l’adozione della moneta unica europea ci segnalava che la ricchezza nazionale era decisamente inferiore al tenore di vita, e che quest’ultimo era, dunque, finanziato (perversamente) dal debito pubblico. Non ne tenemmo conto, con l’insulso lamento sui profittatori che alzavano i prezzi. Quanto oggi appare, improvvisamente, spesa insostenibile per lo stato come per le imprese lo era già, forse lo è sempre stato, ma veniva occultato da flussi di denaro pubblico a sostegno, diretto e indiretto, del reddito quindi del mercato. Altro che neoliberismo. Finché i creditori internazionali non hanno chiesto di ‘vedere’ la nostra solvibilità.
Tutti abbiamo ricavato vantaggio dal welfare italiano, quantomeno protezione, tra cecità e speranza che l’indebitamento crescente servisse alla crescita, mentre la uccidevamo. Il debito pubblico italiano, infatti, più che risorsa tecnica e strategica è stato la linfa di un’etica economica dominante da ‘homo sovieticus (o socialisticus)’, cui la crescita economica è estranea. Per questo stile allocativo semiassitenziale spalmato ovunque, ogni legge, ogni provvedimento di risanamento razionale, quando non rischia l’illegittimità (poiché la Costituzione e il legislatore sono corresponsabili dell’involuzione improduttiva della nostra società, dando armi al potere giudiziario con la sua pretesa blindness) trova oppositori ovunque e fa sempre vittime.
A ‘sinistra’, nelle sue diverse versioni, si avrebbe il coraggio, che neppure un centrodestra forte (forse solo in apparenza) ha avuto, ma solo Monti mostra di avere in sua vece, di dire cose durissime al paese agendo, intanto, di conseguenza? No. Quando Bersani, rivendicando un coraggio del genere, insiste nel dire che il ‘problema numero uno della crisi italiana è il lavoro’ confonde, per condizionamento culturale insuperabile, gli effetti (‘sociali’) con le cause (economiche e strutturali). L’egoismo da tutela reticolare uccide la crescita, senza crescita non vi è lavoro.
Per la serietà del sistema politico e della comunità nazionale è bene che elettori ed élites del centrodestra, quelle veramente ‘riformiste’, non siano tentate di delegare alla sinistra, neppure a quella ‘renziana’, quello che è loro primaria capacità e responsabilità fare. Nel frattempo, e nel caso di vittoria di Bersani (quale?), sarà salutare alle diverse culture politiche progressiste, e alla loro base militante, che una coalizione di sinistra tenti, finalmente, di fare i conti con la realtà, sperimentando cos’è governare questo brusco risveglio collettivo (non solo italiano) e questo nuovo sguardo su noi stessi.