Bollywood prepara dieci cento mille kolossal sull’attacco a Mumbai

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Bollywood prepara dieci cento mille kolossal sull’attacco a Mumbai

23 Dicembre 2008

Ci volle un anno dopo gli attentati dell’11 settembre del 2001 perché il massacro di New York venisse portato sullo schermo, col peraltro discutibile film a episodi intitolato appunto "11 settembre 2001", e poi di produzione canadese; e ce ne vollero ben cinque perché Hollywood avesse finalmente il coraggio di mettere il dito nella piaga nazionale con due kolossal, "United 93" di Paul Greengrass e "World Trade Center" di Oliver Stone. 

Invece, a neanche un mese dall’attacco terrorista a Mumbai, Bollywood aveva già pronti una ventina di titoli sugli eventi: "Taj Terror", "Taj to Oberoi", "48 hours at Taj", "Operation Five Star Mumbai", "26/11", "Mumbai under Terror", "Shootout at Oberoi", "Operation Cyclone", "Bird’s point of view of the Taj Terror"…  Le polemiche e le accuse di cattivo gusto si erano d’altronde già scatenate quando il Chief Minister del Maharashtra, Vilasrao Deshmukh, si era recato in visita a Taj Mahal Palace & Tower subito dopo gli eventi in compagnia del noto regista Ram Gopal Varma, come a fargli da cicerone sul set del suo prossimo ciak. Tant’è che si è dovuto dimettere, anche se l’inefficienza con cui le autorità avevano gestito la minaccia jihadista è stata evidentemente un problema più grave del sopralluogo cinematografico.

D’altra parte, già si sa che non tutti questi film verranno poi effettivamente girati. È un uso degli sceneggiatori indiani quello di rendere subito noti i possibili titoli per "prenotarli", e impedire che possano essere utilizzati da qualche concorrente. Ma molti altri di questi film saranno certamente sugli schermi in capo a qualche mese. Prima industria cinematografica del mondo, Bollywood fa pellicole praticamente su tutto, e sono già stato per essa occasione di spettacolo perfino storie in cui emergevano le sue ambigue relazioni col mondo dell’integralismo islamico. In un certo senso, è la vendetta della grande metropoli, e anche il suo modo di metabolizzare il trauma.

È d’uso definire Bollywood “la Hollywood indiana”, ma in India dicono che dovrebbe essere piuttosto Hollywood a essere definita “la Bollywood americana”. Prima di tutto, è più vecchia: mentre il cinema americano è nato sulla East Coast e si è trasferito in California all’inizio del XX secolo, i fratelli Lumière avevano portato il loro cinématographe a Bombay già nel 1896, e fin dal 1897 un maharastriano di nome Bhatvadekar aveva realizzato dei brevi filmati su incontri di wrestling e scimmie del circo. E poi, Bhollywood esporta di più, anche se ovviamente soprattutto nel Terzo Mondo: oltre 1000 film e 40.000 ore di programmi tv all’anno.

Ma si diceva delle pellicole di Bollywood sul terrorismo. "Mumbai Meri Jaan", che significa poi "Mumbai mia vita" in hindi, è appunto un film che era uscito a agosto e che parlavo dell’impatto su alcuni comuni cittadini degli attentati dell’11 luglio 2006 al sistema ferroviario della città, che provocarono 209 morti e 700 feriti. "A Wednesday", uscito a settembre, parla invece del dilemma di un integerrimo funzionario di polizia di Mumbai davanti al tragico dilemma se liberare alcuni terroristi in cambio delle informazioni su un imminente attentato. "Shoot on Sight", coprodotto da Bollywood nel Regno Unito e uscito a agosto, ha pure protagonista un poliziotto: un musulmano inglese di origine indo-pakistana, di fronte all’ondata di islamofobia che si scatena a Londra dopo gli attentati del 7 luglio. "Black Friday" fu invece presentato nell’agosto del 2004, ma non ha potuto uscire in India fino a una sentenza della Corte Suprema del febbraio del 2007, per i ricorsi di tutte le persone che si sentivano tirate in ballo dalla trama. Il suo soggetto erano infatti gli attentati di Mumbai del 12 marzo 1993, quando l’esplosione di tredici bombe provocò 317 morti e oltre 700 feriti.

Tecnicamente, allora la scintilla era stata accesa dagli estremisti indù, che nel dicembre 1992 avevano assalito in massa e distrutto la moschea di Ayodhya, di cui dicevano che l’imperatore moghul Babar l’avesse costruita sul luogo natale del dio Rama, radendo al suolo un preesistente tempio. La protesta che i musulmani accesero in tutta l’India si era tradotta a Bombay in sanguinosi scontri con una polizia in gran parte composta da indù. E nel gennaio 1993 gli estremisti del partito Shiv Shena, ostili non solo ai non indù ma anche agli immigrati del resto dell’India in genere, avevano scatenato un pogrom contro negozi e abitazioni musulmane, bruciando viva un bel po’ di gente.

La strage del 13 marzo era stata una rappresaglia della cosiddetta D-Company: un’organizzazione mafiosa in realtà composta da islamici in mero senso etnico, che però in quell’occasione si era trasformata in un gruppo jihadista. Per questo finì nei guai Sanjay Dutt: classe 1959, vincitore per due volte di quei Fillmfare Awards che sono un po’ gli Oscar di Bollywood, e figlio a sua volta di due star cinematografiche uno dei quali sull’onda della popolarità era diventato per un po’ addirittura ministro. Lui non è musulmano ma indù, anzi suo padre fu un profugo dal Pakistan all’epoca della partizione. Era però musulmana la madre, una specie di Magnani indiana, anche se il suo matrimonio con un "infedele" l’aveva sospinta ai margini della sua comunità d’origine. E comunque dai musulmani della D-Company Sanjay aveva presto imparato a trovare certe cose che non poteva procurarsi legalmente: prima la droga, di cui da liceale fece uso e abuso, fin quando per disintossicarlo il padre non lo spedì in Mississippi; e poi le armi, di cui faceva collezione perché lo aiutavano a identificarsi coi personaggi estremi che amava interpretare. Nel ’93, ad esempio, il culmine del suo successo era arrivato nel ruolo del killer di buon cuore protagonista del film Khalnayak, "Bandito".

Appunto, alcuni dei suoi fornitori furono arrestati per gli attentati, e lo tirarono dentro. Per due anni finì in galera: tre mesi anche in isolamento, in una cella di tre metri per tre in cui un gabinetto era l’unica fonte d’acqua anche per lavarsi e pulirsi i denti. Per non rimbecillire, racconta un biografo, "Sanjay fece amicizia con la natura. Attraverso la minuscola finestrella  entravano ogni sera nella sua cella quattro passeri, e lui allungava la sua grossa mano con le briciole". Da orologio gli faceva un grosso topo: "lo chiamavo generale Saab perché entrava nella cella a mezzanotte esatta, e se ne andava all’una. Si comportava come un generale che ispeziona la caserma". Poi ottenne una libertà provvisoria che gli permise tra l’altro di interpretare quel "Mission Kashmir" che andò al Festival di Stoccolma e in cui faceva la parte di un eroe anti-islamico: un ufficiale indiano di presidio nella regione, ricostruita a Bombay con tormente di neve in cotone idrofilo, che vede il figlioletto morire perché una fatwa ha vietato ai dipendenti musulmani degli ospedali di curare gli infedeli. Sull’onda del successo, fu ricevuto pure dal presidente della repubblica.

Ma, a distanza di 14 anni, la giustizia fece infine il suo corso. Assolto dall’accusa di terrorismo ma non da quella di traffico d’armi, il 31 luglio 2007 Sanjay fu condannato a sei anni,  anche se quasi subito la Corte Suprema ha poi deciso di rilasciarlo in libertà provvisoria. Era in progetto di fare un film anche sulla sua storia, magari con Sanjay a interpretare sé stesso. Invece, sono venuti prima i nuovi attentati.