Bondi sa quanto è oneroso il peso della cultura (e non per colpa sua)
03 Marzo 2009
Il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali (MIBAC, per gli amici) è al centro di un ciclone: alla fine di febbraio hanno dato le dimissioni il Presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali ed alcuni componenti del “parlamentino” di colti ed incliti che affiancano il dicastero; altre polemiche si annunciano questa settimana, poiché in programma una nuova riunione del Consiglio Superiore (alla cui Presidenza il dimissionario Salvatore Settis è stato sostituito da Andrea Carandini). Nei corridoi del Collegio Romano, si parla di una nuova ondata di dimissioni. Naturalmente, la stampa (specialmente quella di centro-sinistra) getta olio sul fuoco e prende di mira il Ministro Sandro Bondi, il quale, gravato anche dai compiti della organizzazione del Pdl, non darebbe abbastanza attenzione all’amministrazione di cui è alla guida. Le accuse specifiche sono quelle di non avere insistito adeguatamente perché il Ministero abbia una maggiore dotazione finanziaria (rispetto a quella ottenuta nell’ultima legge di bilancio) e di assistere, senza fare molto, al “depauperamento” del personale (7 dirigenti titolari per 24 sovrintendenze archeologiche).
E’ facile rispondere a queste critiche puntuali. Il MIBAC è tra i dicasteri dell’amministrazione italiana quello che maggiormente accumula residui passivi: in effetti, pare vengano erogati unicamente stipendi (e ciò avviene anche in musei dove 8 custodi hanno staccato nell’intero anno di grazia 2007 solo quattro biglietti) e spese per utenze (elettricità, telefono) mentre le spese per investimenti (ivi compresa la manutenzione del patrimonio culturale) languono, tranne che nelle due direzioni generali essenzialmente erogatorie (cinema e spettacolo dal vivo, ossia teatri, opera, concerti). A fine 2008, stime preliminari indicano un residuo di circa 500 milioni di euro; un ammontare che avrebbe raggiunto la cifra di 1.3 miliardi di euro se il Ministro dell’Economia non avesse utilizzato la forbice, cosa che avviene in qualsiasi Paese (dalla Svezia al Burundi) quale che sia il colore politico del Governo. Le ragioni per questa scarsa “capacitazione” (capacità non solo in atto ma in potenza) sono numerose: dato che la situazione va avanti da anni (nonostante i cambiamenti di Governo) si sarebbe dovuto chiedere conto ai vertici amministrativi che, al pari di quanto avviene in quasi tutti i Ministeri, di norma in autunno rialloca spese tra centri di responsabilità a secondo della loro effettiva capacità di realizzare programmi e progetti. Se ciò avvenisse, il Fus sarebbe ampiamente finanziato e i teatri non sarebbero in crisi. Inoltre, sempre in base alla prassi del resto della Pa, i vertici amministrativi dovrebbe stabilire premi e sanzioni per i dirigenti in grado di programmare bene o male. Per quanto riguarda il “depauperamento” di personale è in atto una riorganizzazione del dicastero, nel cui ambito si dovrà definire quanti sono i dirigenti (specialmente “di prima fascia”) effettivamente necessari (tenendo presente la direttiva generale, valida per tutte le amministrazioni dello Stato ed enti vigilati, di ridurne il numero – l’Inps, ad esempio, ha appena dimezzato l’organico di dirigenti “di prima fascia” e ridotto drasticamente anche quello relativo alla “seconda fascia”).
Più significativi di questi punti è la vera e propria giustapposizione oggi presente non solamente in Italia ma anche all’estero nel mondo dei beni e delle attività culturali tra due concezioni della missione della Pa (di ogni ordine e grado) in questo campo. In estrema sintesi, da un lato, una concezione pone l’accento sulla “conservazione” (e sulla regolazione, in gran misura, vincolistica ad essa pertinente) ; da un altro una concezione privilegia la “valorizzazione”. Sono due concezioni che si confrontano da anni: si pensi alle polemiche suscitate circa un quarto di secolo fa dal programma chiamato “giacimenti culturali” (non certo perfetto e per molti aspetti un po’ rozzo) mirato alla “valorizzazione”. E’ un confronto anche nell’ambito della disciplina denominata “economia della cultura”. La professione economica si è rivolta al tema del nesso tra attività culturali e sviluppo economico sin dall’epoca dei classici (con contributi importanti da parte di Smith, Ricardo e Mills). Sul piano teorico, l’interesse è in parte scemato con l’arrivo del marginalismo. E’, però, ripreso negli ultimi decenni specialmente da parte della scuola neo-istituzionalista e da quella dell’economia delle arti sceniche e dell’applicazione dell’analisi costi benefici e della tecnica delle “valutazioni contingenti” alla spesa in conto capitale per la salvaguardia e la valorizzazione dei beni e delle attività culturali.
Per toccare con mano lo spessore della divergenza si prendano, tra i tanti, due studi recenti: uno di Guido Tabellini dell’Università Bocconi ed uno di Anneli Kaasa e Maajda Vadi dell’Università di Tartu in Finlandia. Trattano, più o meno, dello stesso tema: i rapporti tra cultura e sviluppo in varie aree regionali dell’Ue. Tanto Tabellini quanto Kaasa e Vadi non utilizzano unicamente indicatori “culturali” in senso stretto. Quelli impiegati da Tabellini riguardano l’alfabetizzazione, l’urbanizzazione e la cultura quale definita dalla World Value Survey dal 1850 ad oggi . Lo sviluppo è misurato come valore aggiunto pro-capite a prezzi internazionali- un indicatore semplice ma eloquente di benesse medio della poplazione di un’area regionali (le aree utilizzate da Tabellini sono relativamente piccole in dimensione ed in popolazione). L’analisi di Tabellini si riferisce a 69 regioni in otto Stati Europei (Francia, Germania- escludendo i Länder dell’Est e Berlino- Regno Unito, Italia, Paesi Bassi, Belgio, Spagna e Portogallo). Tralasciando, a questo stadio, gli aspetti più strettamente tecnico-statistici, la conclusione è che “la "cultura" è una determinante duratura ed importante della crescita” delle differenti regioni europee: spiega il 50%, ad esempio, del differenziale di crescita tra Lombardia e Mezzogiorno.
L’analisi di Kaasa e Vadi, invece, esplora il nesso tra differenti dimensioni culturali (prevalgono ancora una volta quelle relative all’istruzione ed alla formazione) e la capacitazione (ossia capacità in nuce) di produrre innovazioni. I dati per la stime di Kaasa e Vadi provengono dall’European Social Survey (ESS); quelli sulla “capacitazione d’innovazione” dal numero di brevetti (per ciascuna area regionale). La conclusione dei due economisti finlandesi è, al tempo stesso, negativa ed eterodossa: la “cultura” non viene indivituata tra gli indicatori di innovazione (in termini di capacitazione di brevettare beni e servizi). Determinanti molto più importanti (ma che diventano anche esse negativi in aree ad alta propensità all’innovazione) sarebbero: la distanza (fisica ed organizzativa) dai centri di potere, le misure in atto per contenere l’incertezza, il “collettivismo familiare” (invece del collettivismo organizzativo ed amichevole) ed una percentuale inferiore della media (per il Paese) della popolazione di genere maschile. Se l’innovazione vene considerata come elemento fondante della crescita, il lavoro di Kaasa e Vadi si giustappone apertamente con quello di Tabellini. In sintesi, secondo Tabellini, la “valorizzazione” dei beni e delle attività culturali è leva importante per lo sviluppo, mentre Kaasa e Vadi la stessa “conservazione” andrebbe guardata con sospetto se per crescita (e sviluppo) si intende innovazione.