
Bondi si è dimesso per colpa di registi sconosciuti e attricette di serie B

24 Marzo 2011
Due giorni fa, nel disinteresse generale, si è consumato un fatto che, dal nostro punto di vista, assume un valore altamente simbolico dello stato di degrado della nostra lotta politica: le dimissioni da ministro di Sandro Bondi. Bondi si è dimesso per fatti che non possono in alcun modo essere ricondotte alla sua responsabilità: certamente non il crollo della Domus Aureliana di Pompei, ma nemmeno il taglio dei fondi a disposizione del Ministero della Cultura. Bondi in realtà ha pagato soprattutto per il proprio carattere mite e signorile, il quale, facilmente scambiato per debolezza, attira la violenza e l’aggressività di avversari mediocri a corto di argomenti politici ma famelici e desiderosi di azzannare una preda, qualunque preda, pur di dimostrare al mondo la propria forza.
Eppure la classe con cui Bondi, dopo aver respinto il violento assalto tentato dalle falangi dell’opposizione, ha spontaneamente deciso di lasciare l’incarico ministeriale costituisce la migliore risposta alla volgarità ed alla pochezza che oggi troppo spesso caratterizza la politica.
Ma, oltre agli applausi ad un uomo politico che ha mostrato un non comune senso della dignità personale e del rispetto del valore sacro delle istituzioni, c’è un altro tema che merita di essere approfondito: il tema dei tagli alla cultura (che poi è stata la vera pietra dello scandalo nell’intera vicenda). Sul punto, in giro c’è molta retorica e molta falsa coscienza. Intendiamoci, è chiaro a tutti (anche a noi che pure non siamo culturalmente molto attrezzati) che la cultura (in tutte le sue sfaccettature) rappresenta un asset per l’Italia, Paese che vanta un patrimonio artistico e culturale unico al mondo, che rappresenta non solo un insostituibile elemento della nostra identità nazionale ma anche un fattore importantissimo di sviluppo economico.
Qualcuno però dovrebbe avere il coraggio di dire che il taglio del mitico FUS (il Fondo unico per lo spettacolo) con quel patrimonio ha ben poco a che vedere. Il taglio del FUS riguarda essenzialmente settori che non mobilitano le coscienze degli italiani né attirano frotte di turisti stranieri. Pensiamo, ad esempio, a quel ceto, sostanzialmente parassitario di attorucoli ed attricette, o di sedicenti registi, con tutto il codazzo di operatori, fotografi tecnici e quant’altro che danno vita al cosiddetto “Cinema italiano” (il cui emblema è Citto Maselli un grandissimo regista del quale però non si ricorda un solo film!). Ebbene occorre riconoscere il Grande Cinema Italiano è orami da molti anni solo un ricordo. E non certo per colpa di Sandro Bondi.
Sono oramai decenni che in Italia non viene prodotto un capolavoro, che non emerge una scuola di registi in grado di imporsi a livello internazionale. La nostra identità nazionale, che si era risvegliata negli anni del dopoguerra e della ricostruzione, annaspa e ciò è immediatamente riscontrabile frequentando le sale cinematografiche. Negli ultimi decenni, ad esempio, ci siamo sorbiti decine di film di “grande valore artistico” che si limitavano a rappresentare i tormenti di un quarantenne in crisi che, mollata moglie e figli, si invaghisce di una ragazza di vent’anni con tutti i possibili sviluppi del caso. E molti di questi film avranno sicuramente beneficiato dei contributi dello Stato in quanto film di grande valore artistico. E un discorso analogo andrebbe fatto per gli enti lirici, carrozzoni lautamente sovvenzionati dallo Stato, che vendono sottocosto ad un pubblico benestante un prodotto in parte finanziato con le tasse pagate da lavoratori che semmai trovano del tutto indigesta la musica di Verdi, Puccini & co.
Se vogliamo fare un ragionamento serio sul nostro patrimonio culturale, il punto di partenza del discorso dovrebbe essere riconoscere che la fruizione di prodotti culturali “ordinari” e di massa (cinema, musica, teatro) dovrebbe essere completamente rimessa al libero mercato, rimuovendo semmai gli ostacoli alla concorrenza. Ad esempio, mi sono sempre chiesto per quale motivo il costo del biglietto del cinema sia sempre uguale indipendentemente dal film che voglio vedere. Personalmente, ad esempio, per vedere un film di Wim Wenders sarei disposto a pagare anche 20 euro, per un film di Muccino anche 2 euro mi sembran troppi.
Ben altro discorso è quello degli interventi a tutela del nostro patrimonio artistico e culturale per la parte che non può essere semplicemente affidata ai meccanismi di mercato. Penso, ad esempio, alla tutela del patrimonio archeologico, alla valorizzazione del patrimonio architettonico, al recupero dei centri storici e dei borghi antichi, alla conservazione del patrimonio bibliotecario e archivistico. Se la recente canea sui tagli alla cultura avesse riguardato queste voci, ci saremmo schierati in prima linea. Ma purtroppo l’impressione è che si tratti più modestamente di una banale rivendicazione corporativa e lobbistica, per quanto ben vestita con auliche argomentazione sul futuro culturale del Paese.
Un’ultima notazione. Francamente ci ha lasciato molto perplessi l’annuncio da parte del Governo di un prossimo intervento di reintegro di oltre 200 milioni di euro in favore del Ministero dei beni culturali, la gran parte dei quali destinati proprio al FUS. Intervento finanziato con un aumento delle tasse sulla benzina. Ora a noi pare un assurdo il fatto che per la sopravvivenza di un ceto di sedicenti artisti e che per il godimento di un ceto benestante di melomani o cinefili si debbano tassare i lavoratori pendolari (per di più in un periodo di picco del prezzo del petrolio). Un assurdo contro il quale ci saremmo aspettati di vedere schierata la cultura progressista e di sinistra in servizio permanente effettivo. Ma oltre che assurda la scelta del Governo è anche assai poco gentile proprio nei confronti dell’unico (ex) ministro che si è comportato (anche verso il Governo) con grande gentilezza e signorilità.