Borgese, l’intellettuale dissenziente con la passione per gli Usa

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Borgese, l’intellettuale dissenziente con la passione per gli Usa

09 Marzo 2008

Curioso destino quello di Giuseppe Antonio Borgese. Quando viveva ancora
in Italia, fu uno dei protagonisti della scena culturale dell’epoca: fondatore
di “Hermes”, autore del romanzo Rubé,
attivissimo consulente editoriale tanto da diventare il braccio destro di
Arnoldo Mondadori, docente in varie università della penisola. Nel 1931 rifiuta
(insieme ad altri dieci professori universitari) di prestare giuramento al
regime fascista e emigra negli Stati Uniti, dove rimane fino al 1948: ma anche
da quel paese continua a essere una presenza per niente secondaria. E’ controllato
dalla polizia, vengono fatte pressioni affinché le sue corrispondenze dall’America
non vengano raccolte e pubblicate in volume: Arnoldo Mondadori esitava a
pubblicarle, Borgese gliene chiedeva i motivi, ed emerge dalla loro
corrispondenza che la ragione era la paura dell’editore di inimicarsi
personaggi fascisti molto influenti, tanto che alla fine non se ne fece di
niente. Borgese scriveva corrispondenze molto lette all’epoca dal momento che
uscivano sul “Corriere della Sera”. Non si capisce francamente come mai un
personaggio del genere non sia più studiato, più ripubblicato, più presente nella
storia della cultura italiana attuale.

La storia di questo Atlante
americano
ora ripubblicato da Vallecchi è curiosissima: esce nel 1946
(quando Borgese, caduto il fascismo, poteva di nuovo pubblicare in Italia), ma
con la data del 1936, e in verità sono corrispondenze scritte, e regolarmente pubblicate,
fra  il 1931 e il 1934. Chi avesse preso
in mano il volume senza saperne niente sarebbe caduto nell’errore, peraltro abbastanza
inspiegabile: perché, infatti, retrodatare il libro? Forse per riportare gli
articoli agli anni in cui erano stati scritti? Ma tutti sanno che basta
dichiararlo in due righe di introduzione, senza falsificare le date.  Ambra Meda, allieva di Annamaria Cavalli (uno
dei pochi studiosi di letteratura italiana che abbiano dedicato la loro
attenzione a Borgese), ha ricostruito con puntualità le vicende del testo e ce ne
offre una storia gustosa nella nota che lo accompagna. Il volume non raccoglie
la totalità delle corrispondenze dagli Stati Uniti di Borgese: insieme al figlio
Leonardo, l’autore ne fece all’epoca una scelta, e ne rimasero fuori una
trentina; chi le ha lette sostiene che sono fra le sue più belle, e auspichiamo
che siano ripubblicate anch’esse.

Ma veniamo all’immagine degli Stati Uniti che emerge da questi  scritti. Borgese divide con Emilio Cecchi e
Mario Soldati (ben più noti di lui, e ben più noti in particolare per
l’immagine dell’America che hanno contribuito a costruire in Italia) l’onore e
l’onere di avere fornito immagini del grande paese oltreoceano negli anni del
fascismo: immagini perduranti poi a lungo nella mente di chi li aveva letti. L’America
di ognuno di questi tre autori è diversa dalle altre: l’America di Soldati è il
rifugio degli emigranti, il paese accogliente ma anche spietato, vissuto con
passione ma rifiutato come patria possibile. L’America di Cecchi è quella più
stereotipata: in consonanza con il noto conservatorismo del critico letterario,
la modernità americana appare come mostruosa, devastante, antiumana; il
progetto modernissimo di una vita tutta tecnica e impersonale lo spaventa e lo
rimanda all’antico suolo italiano in cerca di storia, identità, buon gusto. L’America
di Borgese è decisamente quella più inusuale: inusuale perché non risponde agli
stereotipi correnti (negativi o positivi) e cerca invece di registrare la
civiltà, la vita americana, proprio come sono, come sono percepite da chi ci
vive e da chi le osserva. Uno sguardo così fuori dagli schemi in Italia, tralasciando
ovviamente gli americanisti che studiano l’America in modo professionale, si
ritroverà solo negli anni Cinquanta con Piovene, solo in alcune pagine (non
tutte) di Prezzolini in piena Guerra Fredda.

Borgese si immerge in una realtà così
lontana dalla sua con curiosità e totale apertura mentale: curiosità e apertura
mentale dovrebbero essere il viatico di ogni viaggiatore, ma sappiamo bene che esploratori
del genere sono tanto rari quanto encomiabili. Borgese viaggia per il
vastissimo paese, registra le differenze tra le diverse regioni, incontra gli
americani e discute con loro, cerca di capire il loro modo di vivere e di
pensare, li considera tutti (personaggi intellettuali e persone comuni,
paesaggi noti e regioni sconosciute agli europei) come materiali degni di
considerazione: degni di essere descritti per il Vecchio Mondo, presentati a
chi non li conosce, tradotti in termini accessibili a mentalità così estranee.
Ma, soprattutto, ritiene che quei luoghi, quelle persone, quei comportamenti,
siano dotati di valore in sé, non solo come riflesso o distorsione di
un’immagine nello specchio europeo: il valore universale dell’essere uomini,
della gioia, della noia, del dolore, ma declinati in altro modo rispetto a
quello a noi noto. La scelta di vivere negli Stati Uniti a lungo nel suo caso è
perfettamente conseguente all’atteggiamento che ha verso quella civiltà.

Se leggiamo questo piacevolissimo Atlante
americano
, un po’ vecchiotto e un po’ attuale, troviamo giudizi inconsueti
e usuali perplessità, immagini personalissime e note abituali, smarrimento nei
confronti del movimento continuo, dell’uniformità di cose, case e persone, ma
anche scatti di genio: New York gli rievoca l’Oriente, la California gli appare
“lunare” malgrado il sole che splende sempre, Los Angeles è un accampamento
asiatico, New York è città assoluta, la natura è wilderness. L’America è orribile ma anche graziosa come un
merletto, è individuale e collettiva, puritana e opulenta, Inferno e Arcadia,
Strapaese e Stracittà, bene e male, orgoglio e autofustigazione, è moderna e
antica, grandiosa e quantitativa, barbara e civile insieme. Significativo
quello che scrive di New York la verticale, dove gli uomini vivono a grappoli e
nella quale pian piano gli si rivela l’umanità, la cortesia, l’aspetto bonario
e addirittura la bontà. Scopo di un viaggio non è confrontare l’idea del paese
che si aveva prima di partire con quella che ci si forma viaggiando:
semplicemente, viaggiare bene equivale a dimenticare completamente le immagini
preesistenti. Borgese scrive: “Poche cose al mondo sono così disperatamente
monotone come le censure contro l’America, paese dei monotoni standards; quando s’è detto produzione
in massa, dollaro, povertà di storia, povertà d’arte, civiltà meccanica,
vettovaglie in scatola, Tammany Hall, s’è detto tutto, o quasi; e quasi la
penna stessa ha noia di ritrovarsi in luoghi tanto comuni. Essi furono
formulati proprio in America; donde esportati in Europa, vi ottennero un
successo travolgente (..). Sicché dalle nostre parti ne sono forniti tutti i
tabaccai, ed è una spesa pazza traversare l’Atlantico per comperare verità da
un soldo.”

 

 

 

Giuseppe Antonio Borgese, Atlante americano, a cura di A. Meda,
Firenze, Vallecchi, 2007.