Breve storia del velo nell’islam e della capitolazione occidentale

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Breve storia del velo nell’islam e della capitolazione occidentale

17 Maggio 2016

La Corte di Appello di Milano nei giorni scorsi ha dato ragione a Sara. Una giovane musulmana che nel 2013 si era vista negare un’assunzione per un lavoro di due giorni, perché indossava l’hijab. Il comportamento dell’azienda è stato definito “discriminatorio”. E il precedente è stato bello e confezionato.

Siamo ormai da anni su un piano inclinato. Sullo scivolo del multiculturalismo, che consente una penetrazione culturale in stile politically correct. Succubi della pretesa di costituire nel nostro mondo enclaves in cui siano riconosciuti come regolatori della vita sociale i principi islamici.

Perché per quanto il velo possa sembrare un dettaglio banale, non lo è. È così insignificante l’idea secondo cui, presi singolarmente, gli elementi dell’islam possano risultare innocui. Come se non compongano, proprio singolarmente, l’ampiezza del sistema (che vuole a tutti i costi essere alternativo) di questa religione.

E il velo è precisamente la punta di diamante del progetto che rifiuta l’integrazione tra il mondo occidentale e tutto ciò che gli ruota intorno. Il velo è il simbolo per eccellenza del sogno di rilanciare l’islam come alternativa globale, religiosa e politica.

I nuovi intellettuali muovono le loro argomentazioni vedendovi, nel difenderlo, un mero simbolo religioso come un altro. Lo reputano, semplicemente, un obbligo inerente alla religione musulmana. Ma è del tutto vero? Procediamo con ordine.

In area islamica è continuamente sottolineato come la donna non debba fare nulla per guardare e, soprattutto, per farsi guardare. Questo modo di pensare ha fatto sì che spesso nell’inconscio musulmano la femminilità venisse associata alla concupiscenza. E il pericolo di impurità fa sì che il sesso femminile possa essere ritenuto sinonimo di disordine.

Inevitabile, allora, che possa manifestarsi un’idea di società dal profilo puritano, ossessionata da ciò che può essere o è impuro, con una codificazione giuridica conseguente: se sei donna, il preteso peccato mortale nel mostrare per esempio i capelli e il collo (parti del corpo dalle quali l’uomo non riesce a non sentirsi adescato) rischia di diventare reato.

Così diventa indispensabile coprirsi, meglio, forse, o doveroso, coprire l’intero corpo. Il velo, pertanto, viene ad essere lo strumento per conseguire l’obiettivo della purezza.  E, oggi, vedere quelli che Oriana Fallaci definì “sciami di pipistrelli umiliati”, è cosa talmente usuale da non stupire più.

Eppure lo hijab, storicamente, non ha mai rappresentato un dogma nella religione islamica o un simbolo religioso. Nonostante, quotidianamente, si faccia di tutto per farlo passare come tale. Nel 2004, per ‘Repubblica‘, Khaled Fouad Allam, professore musulmano di islamologia discusse approfonditamente il tema.

Anzitutto, sottolineò che il bisogno di ricamare sul velo una teoria del diritto non era proprio contemplato, nell’islam classico, dai giuristi. E la motivazione era piuttosto elementare: la donna di quegli anni era immaginabile esclusivamente in un universo di clausura.

La sua vita poteva svolgersi solo nello spazio privato, non poteva uscire di casa. E qualora avesse dovuto, per motivi eccezionali, palesarsene l’eventualità, aveva bisogno dell’autorizzazione del marito, del padre, dei fratelli.

Pertanto il pericolo di imbattersi nell’altro sesso, non era plausibile. Di fatto, doveva coprirsi solo una volta, quando si recava in moschea per la preghiera rituale. Un velo dalla funzione differente, quindi, di cui, Qayrawin, un celebre giurista musulmano (996), parlava usando la parola ‘khimar‘.

Lo ‘Hijab’, infatti, compare solo nel XIV secolo. E non si trova alcun riscontro effettivo di questa parola nel Corano. Il giurista Ibn Taymiyya è il primo a utilizzarla. E lo fa prendendo spunto da una interpretazione del versetto 31 della sura 24 del Corano. Nell’estrapolare un’affermazione, dal chiaro contenuto generico, le attribuì valore di norma.

Si legge: “E di’ alle credenti di abbassare i loro sguardi ed essere caste e di non mostrare, dei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciar scendere il loro velo fin sul petto e non mostrare i loro ornamenti ad altri che ai loro mariti, ai loro padri, ai padri dei loro mariti, ai loro figli, ai figli dei loro mariti, ai loro fratelli, ai figli dei loro fratelli, ai figli delle loro sorelle, alle loro donne, alle schiave che possiedono, ai servi maschi che non hanno desiderio, ai ragazzi impuberi che non hanno interesse per le parti nascoste delle donne”. 

Da azione ad oggetto. Fu questo il passaggio. Quel velarsi, equivale a creare un confine che separi, che nel tenere le cose nell’opacità, respinga gli sguardi invadenti. Oggi è il segno distintivo tra musulmane e non. Il simbolo dell’identità e dell’appartenenza.  

Nel mutamento linguistico vediamo inserirsi uno di carattere sociale. Il credente, infatti, si trova improvvisamente costretto a scontrarsi con il problema di essere musulmani in una società in cui la maggioranza è non-musulmana. E allora il velo rappresenta la chiusura in difesa di una comunità e di una cultura, che perciò nega la libertà, intesa come fattore di ‘occidentalizzazione‘, e ‘inventa’ regole giuridiche per tenere sotto controllo la propria gente e l’islam stesso.

È nel XX secolo che il “mutamento” trova la sua attualizzazione. Immediatamente dopo la fase di decolonizzazione, i processi di modernizzazione fanno sì che anche le donne vengano coinvolte nell’alfabetizzazione e accedano al mondo del lavoro. Il loro universo si espande, così, al di là delle mura domestiche.

C’è stato un tempo in cui, infatti, per le stesse strade lungo le quali oggi è difficile trovare una donna senza chador o niqab, la si poteva vedere vestita esattamente “all’occidentale“. E a documentarlo ciò ci sono persino alcune foto pubblicate dal New York Times, che ritraggono donne afghane in minigonna tra gli anni Settanta e Ottanta. Poi, però, arrivarono i talebani. Non certo per allungare la stoffa della gonna, ma per coprirle completamente.

Negli anni Ottanta, la rivoluzione islamica iraniana, inizia a cambiare definitivamente le carte in tavola. La furia della reislamizzazione sigilla la donna nel velo. E una volta uscita dai confini arabi o persiani, è proprio lei che comincia ad indossarlo per reclamare la propria identità.

L’ambasciata iraniana per prima distribuì l’hijab nelle moschee. E il passo al burqa, la ‘tunica’ nera che dal capo copre fino ai piedi lasciando solo dei fori minuscoli in corrispondenza degli occhi per intravedere il mondo, senza guardare, fu brevissimo. Vedi emirato talebano in Afghanistan.

Quale fosse il vero senso del velo lo confermarono  gli ayatollah dicendo che il chador è la “bandiera della rivoluzione”. Espressione che trova riscontro anche, per esempio, nel racconto di alcune famiglie musulmane francesi che venivano pagate da organizzazioni musulmane, ogni trimestre, perché le figlie indossassero l’hijad a scuola. Oppure, ancora, nel 1989, quando addirittura due ragazze di ritorno da una vacanza in Marocco pretesero di indossare il velo a scuola, nel quartiere di Creil a Parigi.

In quel velo che oggi l’occidente difende in tribunale, in quel velo che Dolce&Gabbana, H&M, Mark&Spencer, Uniqlo, DKNY, Tommy Hilfiger, Oscar de la Rentaa, Monique Lhuillier, hanno inserito nelle loro collezioni di moda, è incisa la forma sublime del rifiuto. Il rifiuto dell’identità occidentale, dell’assimilarsi.

C’è tutto il desiderio di alzare una tenda che separi, che non osi mischiare nulla, neppure gli sguardi. Perché nella parte del mondo in cui l’uguaglianza dei sessi è un principio non negoziabile, il velo ostentato, preteso, difeso, non può essere che provocazione politica. Il simbolo di un rifiuto di costumi che non si vuole condividere.

È impossibile reputarlo un mero segno di solidarietà. Persino uno come Jack Straw, ex ministro degli Esteri inglese, da sempre sostenitore entusiasta del multiculturalismo, alla fine della sua carriera politica si è visto costretto a dichiarare: il velo sta diventando una “dichiarazione visibile di separazione e alterità”.

Prima li imposero, i veli, ora in alcuni casi lasciano che, insieme alle teste, esplodano in nome della guerra santa. Che è una guerra contro l’Occidente. E noi?

Noi, vestendoci di un paradosso ridicolo (anche là dove ci diciamo paladini dei diritti delle donne e della libertà di disporre del proprio corpo), combattiamo la nostra personale battaglia in nome dell’autodistruzione. Supini, lasciamo che diventi consuetudine ciò che non lo è, che le lingue si mescolino e che l’identità liquida evapori mentre ci prostriamo. 

Quando una cultura insicura e verrebbe da dire complessata si trova a guardare negli occhi un’altra ancorata, invece, a dottrine forti, è inevitabile che la prima ceda il passo con reverenza e moine alla seconda. Non c’è nessun legame tra abbigliamento e stile di vita. Giusto? Da che parte è La Mecca